Pubblicato su Politica Domani Num 47 - Maggio 2005

Decima musa
Il cinema allo specchio
Lo specchio è un "oggetto cinematografico" per eccellenza, un "luogo" della narrazione carico di significati metaforici capace di visualizzare discorsi molto complessi

di Luca Di Giovanni

Ci sono gesti, azioni e piccoli momenti nella giornata di qualsiasi individuo che il cinema non ha mai raccontato. C'è una tacita convenzione, una sorta di accordo non scritto che sconsiglia a chi scrive un film di mostrare i tempi morti, i momenti più insignificanti nella giornata di un personaggio, a meno che ciò non serva per esigenze drammaturgiche. È una questione di ritmo, spesso: il cinema racconta la vita, ma non è la vita, perciò uno sceneggiatore che deve raccontare dieci anni di eventi in due ore non può permettersi di indugiare su una fila alle poste o su una pennichella pomeridiana.
Allo stesso modo ci sono luoghi e situazioni della nostra quotidianità che invece si prestano ad essere più "cinematografici", e quindi vengono mostrati spesso e volentieri, al punto da risolvere intere scene e da regalarci, nei momenti più felici, sequenze indimenticabili.
Pensate quante scene al telefono sono entrate nella storia del cinema, o a quanto l'automobile sia importante e presente nell'immaginario collettivo del cinema contemporaneo: un intero filone di pellicole che negli anni '70 raccontavano di viaggi attraverso l'America in automobile ha dato vita ad un vero e proprio genere cinematografico, il Road Movie.
Lo specchio è da sempre un "oggetto cinematografico" per eccellenza, un elemento immancabile in ogni storia raccontata sul grande schermo, un "luogo" della narrazione che spesso si carica di significati metaforici e diventa mezzo per visualizzare discorsi molto complessi.
Provate a fare caso, da oggi in poi, a come in ogni film ci sia almeno una scena davanti allo specchio. Certo, essendo un oggetto molto comune, presente in ogni casa, questo non stupisce, e inoltre non tutte le volte che compare ci troviamo in una scena-madre; ma è interessante come facendo un piccolo sforzo di memoria tornino alla mente decine di scene memorabili con lo specchio protagonista.
Ponendo un personaggio davanti alla sua stessa immagine, un regista ad esempio ha la possibilità di approfondire un discorso sulla visione, sullo sguardo e sul cinema stesso: come nelle indimenticabili scene di "The Truman Show" in cui Jim Carrey si guarda negli occhi (e quindi guarda in camera) cercando di scoprire qualcosa di vero nel suo volto, prima della presa di coscienza finale, o le profetiche (pre)visioni di film come "L'occhio che uccide" di Michael Powell o "Essere John Malkovich" di Spike Jonze, in cui ogni sequenza dove un personaggio si vede riflesso sottende un complesso discorso meta-cinematografico.
E non a caso, nei film dei grandi maestri che hanno esplorato gli abissi della psiche umana e le enormi potenzialità del mezzo abbondano le scene indimenticabili viste attraverso uno specchio: come lo splendido finale di "Ombre e nebbia", gioiello poco conosciuto della produzione di Woody Allen, tutto incentrato "sull'esaltazione dell'Arte come unico luogo, dove trucchi e illusioni possono aiutare a sottrarsi al Male della storia"; o la celebre sequenza di nudo tra Tom Cruise e Nicole Kidman in "Eyes wide shut", con i due che, al ritmo di "Baby did a bad bad thing" iniziano a fare l'amore davanti ad uno specchio da cui la Kidman non riesce a staccare gli occhi; o la lunga scena in cui Michel Piccoli mima il suicidio allo specchio, prima di uccidere la moglie che dorme in "Dillinger è morto" di Marco Ferreri; o ancora la scena d'apertura di "Mean Streets", con Harvey Keitel che si sveglia in piena notte, e "Fuori orario" di Scorsese, in cui il protagonista si trova più volte in bagno a lavarsi la faccia, come per svegliarsi dall'incubo in cui è precipitato.
A volte mettere un attore davanti ad uno specchio ha dato al regista la possibilità di inserire nel film una pausa narrativa, un momento riflessivo, quasi teatrale, con risultati talora indimenticabili. Da antologia il monologo di Edward Norton che se la prende con New York ne "La venticinquesima ora" di Spike Lee; la scena che apre e chiude "Toro scatenato" di Martin Scorsese, con De Niro-La Motta ingrassato 35 chili che recita di fronte a sé stesso il monologo di Marlon Brando in "Fronte del porto" (magnifica vertigine: De Niro che fa Jake La Motta che fa Marlon Brando che fa Terry Malloy); le sequenze de "L'odio" con i tre protagonisti davanti agli specchi, alla ricerca di un'identità che "solo i miti del cinema o di un'eleganza sognata sembrano poter dare"; la "sorpresa finale" di "Boogie Nights", capolavoro di Paul Thomas Anderson, con la scoperta del talento di Dirk Diggler, divo del porno in caduta libera.
A volte lo specchio può essere un nemico, impietoso rivelatore di vecchiaia (nelle struggenti scene di "Luci della ribalta" in cui Chaplin si mostra per la prima volta vecchio, senza più la maschera comica di Charlot) o di mostruosità (le umiliazioni subite dal "mostro John Merrick, costretto da un sadico torturatore a vedersi riflesso nello specchio in "The elephant man").
Altre volte è simbolo di speranza (riflesse in specchietti assistiamo alle comunicazioni tra i carcerati di celle adiacenti nel classico "Fuga da Alcatraz" di Don Siegel), veicolo per un colpo di scena (la scoperta dell'assassino nel finale di "Profondo rosso" di Dario Argento), addirittura strumento di morte (in "M.Butterfly" Jeremy Irons si suicida recidendosi la carotide con uno specchio).
Ma le sequenze più belle, per virtuosismo e sfrenata fantasia, sono quelle nel labirinto di specchi al luna park dove avviene la resa dei conti finale ne "La signora di Shangai" di Orson Welles, e quella vetta comica dell'intera produzione chapliniana che è l'inseguimento nella sala degli specchi tra Charlot e il signore che aveva perso il portafoglio ne "Il circo".
Quando un regista come Coppola mette il tenente Willard davanti ad uno specchio nella scena iniziale di"Apocalypse now" non lo fa senza una ragione: quello specchio riflette impietosamente la rovina e la disperazione in cui una grande nazione si trova, per colpa della sciagurata guerra in Vietnam, e Martin Sheen ubriaco, drogato e quasi pazzo rappresenta un'intera generazione che si è perduta. Il suo patetico balletto finisce infatti con un pugno che frantuma lo specchio, come a non voler più vedere la propria immagine riflessa, e il sangue della sua mano ferita è il sangue innocente sparso per una causa persa in partenza.
E a un altro maestro degli anni '70, Martin Scorsese, dobbiamo il monologo più indimenticabile della storia del cinema: quello di Robert De Niro in "Taxi Driver", che chiede alla sua immagine "…ma dici a me?" e si minaccia con la pistola come in un duello western, incarnando alla perfezione la paranoia dell'era Nixon.

 

Homepage

 

   
Num 47 Maggio 2005 | politicadomani.it