Pubblicato su Politica Domani Num 46 - Aprile 2005

Imprenditorialità e competitività
I limiti dello sviluppo
Dall'analisi dell'Eurispes una fotografia sulla salute dell'impresa italiana

di Fabrizio Comerci

L'ultimo rapporto Eurispes sull'industria italiana lascia poco spazio a prospettive di ripresa o a pessimismi apocalittici meramente fondati su principi di "economia elettorale".
Per comprendere l'effettivo stato di salute dell'economia nazionale, l'Italia non può essere decontestualizzata dalla realtà del mercato unico europeo e da una tendenza, più generale, a una globalizzazione commerciale. Tali due elementi pongono, infatti, gli imprenditori d'innanzi alla sfida di una competizione sempre più diretta e sempre meno mitigata e protetta da dinamiche nazionali o da barriere doganali. Sono proprio di questi giorni le proposte, avanzate dalla Lega, di porre barriere all'invasione del mercato italiano da parte di quei prodotti tessili, provenienti dall'estremo oriente, che stanno mettendo in difficoltà i nostri produttori del settore. Casualmente, è proprio quest'anno (2005) che scade il termine ultimo per l'adeguamento all'ACT (Agreement on Texile and Clothing) che soppianterà definitivamente il Multifibre Agreement del 1995: insieme di accordi multilaterali stabiliti nell'ambito della WTO (World Trade Organization), che prevedevano tetti massimi d'importazione nei Paesi occidentali di merci del settore tessile provenienti dai Paesi orientali e, più in generale, in via di sviluppo. Questo per permettere alle industrie del "Primo Mondo" di prepararsi a competere con i prodotti a basso prezzo delle industrie asiatiche (non proprio secondo i principi dell'equa competizione sanciti dalla WTO...).
Ed è proprio in materia di competitività che, secondo l'Eurispes, l'Italia sembra avere la peggio.
Il nostro tasso di crescita quinquennale del settore industriale è dell'1%, contro una media europea del 10%. Le scelte strategiche degli imprenditori italiani, sempre secondo l'Eurispes, sembrano essere state poco lungimiranti. L'innovazione del processo produttivo e, soprattutto, la leva del prezzo, non essendo accompagnati da un'innovazione del prodotto, hanno fruttato scarsi risultati. "In buona sostanza la crisi dell'industria italiana è legata principalmente ad un divario in termini di competitività che non può fondarsi esclusivamente sul prezzo dei prodotti" (Studio Eurispes, L'impresa italiana - declinismo o declino?).
Per quanto riguarda le innovazioni del processo produttivo, si nota la tendenza (mondiale prima che italiana), alla delocalizzazione attraverso l'outsourcing (terziarizzazione). Il tentativo da parte delle imprese è quello di usufruire di politiche produttive più vantaggiose o di costi del lavoro sensibilmente inferiori, dislocando parte dell'impresa all'estero, in Paesi dove ciò è possibile. Molte imprese tessili del "made in Italy", per esempio, hanno chiuso i loro tradizionali stabilimenti del Nord-Est per andare a colonizzare l'Est Europa. Ma ciò comporta un doppio costo sociale. Da una parte vi è un inevitabile sfruttamento di situazioni lavorative scarsamente tutelate, dall'altra vi è una corsa al ribasso dei salari (in una competizione persa in partenza a causa di poteri d'acquisto enormemente differenti), un mancato sfruttamento di competenze decennali e, di riflesso, un abbassamento del livello di qualità dei prodotti.
I dati parlano chiaro: il calo occupazionale degli addetti al settore industriale, riguarda tutto il Nord (-49.491 addetti); la situazione del centro rimane immutata dal 2000, mentre a Sud si registra un incremento non trascurabile (+108.794 unità).
Dunque, se le produzioni a basso valore aggiunto soffrono la concorrenza di Paesi dove il costo del lavoro è inferiore, le produzioni ad alto valore aggiunto soffrono "di una scarsa capacità di innovazione e di espansione al di fuori del mercato nazionale" (ibid), e il tutto è suggellato dall'assenza di politiche di sviluppo nazionale e da uno scarso investimento nella ricerca scientifica e tecnologica, ecco che appare lampante come non si possa parlare di disagio temporaneo, ma si debba parlare di crisi di sistema.

 

Valore aggiunto
Il valore aggiunto economico è la misura dell'incremento di valore di un bene o di un servizio, derivante dall'intervento dei due fattori produttivi: capitale e lavoro.
La differenza tra il valore dei beni e servizi prodotti e il valore delle materie prime (i beni e servizi necessari all'impresa per produrre), dà la misura del valore aggiunto.
Il settore del tessile, del cuoio e delle calzature è l'esempio di un'industria a "basso valore aggiunto"; il settore dei macchinari elettrici e degli strumenti di precisione è un esempio di produzione ad "alto valore aggiunto", essendo necessari, per operare in questo campo, grandi mobilitazioni di capitali per la ricerca e manodopera altamente specializzata.

 

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Num 46 Aprile 2005 | politicadomani.it