Pubblicato su Politica Domani Num 46 - Aprile 2005

Conversazioni
Cultura d'impresa ed etica dello sviluppo
Il Prof. Marco Vitale, economista, rispondendo ad alcune domande su temi apparentemente lontani pone l'accento su valori e comportamenti da tempo dimenticati

a cura di Maria Mezzina

L'impresa italiana sembra essere caduta in una profonda crisi. Né si vedono all'orizzonte segni di una possibile seria ripresa. Il rapporto Stato-impresa e comunità-impresa è stato gravemente compromesso. Gli esempi sono tanti: Fiat, Alitalia, Parmalat sono solo alcuni. L'impresa viene percepita come proprietà esclusiva. Eppure è sulla buona salute delle imprese che si fonda il benessere collettivo. L'equazione "più lavoro, più capitale, più profitto uguale più sviluppo e più benessere per tutti" si è rivelata di difficilissima soluzione. Questo nonostante le promesse, le aspettative e le speranze, che da oltre dieci anni si sono risolte anche in scelte politiche e scelte elettorali precise.
Prendendo spunto da un intervento su "Etica, impresa ed economia" tenuto dal prof. Marco Vitale l'8 marzo scorso nel corso di un Forum su "l'Etica del lavoro" (Castellanza, Università Carlo Cattaneo, Rotary International), abbiamo rivolto all'illustre economista alcune domande.

Prof. Vitale, cosa è l'impresa?
Nella mia concezione l'impresa è istituzione di interesse pubblico a gestione privata, strumento strategico e operativo per lo sviluppo collettivo. Questa concezione è anche quella propria del nostro patto costituzionale (come esso emerge dagli artt. 35-47 della Costituzione). È quella propria di ogni democrazia industriale. La stessa su cui è basato il grande sogno americano apparentemente tramontato ed approdato ad una ferrea plutocrazia del capitalismo democratico. È quella che traspare nella concezione dei leader che tentano faticosamente di trovare vie d'uscita dal collettivismo inefficiente e soffocante. In questa concezione si identificano le principali organizzazioni manageriali del mondo.

Eppure c'è diffidenza intorno all'impresa. Il vecchio conflitto capitale-lavoro è ancora molto sentito.
L'impresa moderna non è solo un centro di produzione e di accumulazione del profitto. Perciò coloro che da un lato la esaltano come pura produttrice di profitto, e coloro che, dall'altro, la additano al pubblico odio, come una forma demoniaca di oppressione sull'uomo, sono entrambi epigoni di culture ottocentesche, sorpassate e pericolose. Essi chiamano a raccolta degli eserciti di cafoni per una insensata guerra di religione, dalla quale sarebbe ora che ci liberassimo. La grande legittimazione dell'impresa sta nel fatto che essa deve essere produttrice di sviluppo. Quando si acquisisce questa nozione, l'impresa diventa un organismo che supera il conflitto capitale-lavoro, il quale sopravviverà, ma dovrà trovare nuove forme di composizione, nel quadro di un riconosciuto interesse comune. Nessuno, né la proprietà, né il sindacato, hanno il diritto di distruggere l'impresa. E il management ha la responsabilità che ciò non avvenga.

Come si coniuga la necessità di generare profitto, propria dell'impresa, con la sua valenza sociale?
L'impresa è tale solo quando l'accumulazione del capitale è strumentale al progredire dell'accumulazione della conoscenza tecnologica (quale luogo privilegiato dell'innovazione, del dinamismo, della produttività) e al progredire dell'accumulazione della conoscenza organizzativa (e qui rientra anche tutta la problematica della cultura del lavoro). È solo quando, in un processo unitario e dinamico, queste tre forme di accumulazione si sviluppano in un'azione equilibrata, che l'impresa assolve il suo compito primario di essere soggetto e motore di sviluppo. Ed è solo quando ciò si verifica che possiamo parlare di successo duraturo dell'impresa.
In questa concezione il profitto rimane una misura indispensabile e un vincolo inderogabile, ma non è l'obiettivo primario dell'impresa. L'obiettivo primario dell'impresa è lo sviluppo, realizzato anche attraverso il profitto. Senza profitto non c'è sviluppo né in un'economia capitalista, né in un'economia collettivizzata.

È dunque il profitto il motore dello sviluppo?
No, il profitto non è sufficiente per lo sviluppo. Perché c'è il profitto senza sviluppo, c'è il profitto senza qualità, c'è il profitto monopolistico, c'è il profitto senza progresso dell'accumulazione tecnologica e della conoscenza organizzativa. C'è il profitto che deriva solo da connivenze con chi gestisce le casse pubbliche. C'è il profitto che devasta la terra e che degrada le città. C'è un profitto che è solo apparente perché parte dei suoi costi di produzione si scaricano in bilanci diversi da quelli dell'impresa. C'è il profitto che miete solo e ha smesso di seminare; c'è il profitto sterile che non svolge più la sua funzione fecondatrice; c'è il profitto che, in realtà, è ormai solo consumo di quanto altri hanno accumulato nell'impresa. Ci sono i profitti di guerra e ci sono i profitti di regime. C'è il profitto che deriva da spericolate speculazioni finanziarie e c'è il profitto tesaurizzato e non distribuito con equilibrio tra i fattori della produzione.

Chi controlla però, se non il management, la qualità del profitto?
Se il profitto è sterile o fertile, non lo può stabilire solo il management. Egli ha e deve avere la responsabilità di elaborare il progetto e di condurlo in porto. Ma la sua azione è sottoposta a rendiconto non solo davanti agli azionisti, ma davanti al lavoro, ai risparmiatori, alla cultura, all'opinione pubblica.
Il tema di fondo sul quale il management è chiamato a rendere conto è proprio questo: il profitto che stiamo producendo è fertile o sterile? E questa resa di conto è necessaria perché l'impresa, pur di proprietà e di gestione privata, è strumento strategico e operativo di sviluppo collettivo. Anche per questa via si risale alla concezione d'impresa, e, attraverso questa, a una concezione di società, che è quella che chiamiamo, per brevità, capitalismo democratico.

Che ruolo ha in tutto ciò il mercato?
In un'economia pluralista e imprenditoriale l'impresa agisce e comunica con la società in cui è immersa attraverso lo strumento del mercato. Il mercato non è altro che una sottile rete di comunicazione. Come tale esso è uno strumento prezioso e moralmente neutrale. I disagi che spesso sentiamo nei suoi confronti non derivano dalla natura propria di questo utilissimo strumento sociale, ma dalla impropria collocazione che noi, soprattutto nei nostri giorni, assegniamo allo stesso. Da utile strumento che assolve preziose funzioni per importanti settori della vita sociale - ma che certamente non assorbe ed esaurisce tutte le trame che legano e animano una collettività - noi ne abbiamo fatto, impropriamente, un idolo, il vitello d'oro.
E mentre non riusciamo a portarlo là dove deve esserci (mi riferisco a tutte le strutture monopolistiche che soffocano la nostra economia e la nostra società, dall'energia elettrica, alle televisioni, alla raccolta pubblicitaria televisiva e a tante altre), lo portiamo in settori della società dove il mercato non deve esserci. Il Pontefice nella "Centesimus Annus" ha detto: il mercato va bene (ed è stato un progresso nitido nel pensiero cattolico) ma ci sono cose che non si debbono e non si possono né comprare né vendere. Sono parole che dovrebbero esser scolpite in tutti i luoghi, ma soprattutto dove si svolgono compiti di amministrazioni pubbliche. Il mercato non dovrebbe entrare nella giustizia, nella sanità, nella scuola, nell'urbanistica, nelle elezioni politiche. È nel fatto che noi, invece, facciamo mercato di tutte queste attività, e non in una pretesa immoralità del mercato, l'origine di tanti nostri mali e di tanti nostri disagi.

Che indicazioni si possono dare ai giovani che si orientano verso il lavoro d'impresa?
Per trent'anni ho cercato di insegnare ai miei studenti un modello di impresa seria, innovatrice, aperta, competitiva operante in mercati corretti e contenuti nella sfera che gli è propria. Un modello di impresa per la quale sono sempre stato impegnato, sia sul campo professionale che su quello teorico. Allora ricordavo loro il motto dei mercanti fiorentini, i primi veri imprenditori d'Europa, che sintetizzavano il loro modello d'impresa con queste parole: "Potere, sapere e con amore volere". Dopo seicento anni non possiamo dire molto di più e di meglio. Possiamo solo sforzarci di calare quei valori nella complessa realtà odierna.
Confesso però che, soprattutto di fronte ai giovani, negli ultimi dieci-quindici anni, mi sono spesso domandato, con grande turbamento, se era giusto coltivare in loro questi antichi valori in un mondo dove la morale vincente, la morale premiata del sistema è così diversa.
Nel 1994 terminavo una relazione dal titolo "Dall'impresa protetta all'impresa competitiva; i modelli imprenditoriali emergenti nell'economia italiana" con queste parole: "Ma non vi nascondo che da qualche tempo insegno tutto ciò con un grande sforzo interiore, per tentar di cacciare il pensiero che, forse, sto ingannando i miei studenti e che, forse, dovrei semplicemente dire loro: il modello d'impresa emergente in Italia è quello dei mascalzoni".
Il mio timore di allora si è dimostrato fondato. Il modello dei mascalzoni ha stravinto nel nostro paese e non solo nel nostro paese e la speranza di costruire un capitalismo democratico è per ora sconfitta. Ma poiché il modello vincente dei mascalzoni ci sta portando alla rovina, forse, se ancora insegnassi, continuerei ad insegnare il modello che ho cercato di sintetizzare in questa conversazione.

 

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