Pubblicato su Politica Domani Num 44 - Febbraio 2005

Debito estero argentino
Radici "autoritarie" di un fallimento
Giunte militari, finanze creative e allegre, le politiche sbagliate del FMI hanno portato al collasso l'economia argentina

di Fabio Antonilli

Ha radici lontane il gigantesco debito estero che tiene ancor oggi col fiato sospeso tutta l'Argentina, e anche i creditori internazionali. Esso fu uno dei principali argomenti utilizzati dai militari per giustificare il golpe del marzo del 1976. In quell'anno il debito estero argentino aveva superato gli 8.000 milioni di dollari. Sotto le varie giunte militari crebbe a dismisura. Complici le politiche volte all'arricchimento personale dei membri della casta militare, l'aumento delle importazioni (specialmente per l'acquisto di armi sofisticate); la politica di apertura (incontrollata) agli investimenti stranieri, che serviva ad accattivarsi l'amicizia dei Paesi industrializzati, i quali chiudevano entrambi gli occhi davanti al regime di terrore instaurato dal regime; l'inutile dispendio di energie finanziarie nella guerra contro la Gran Bretagna per la "reconquista" delle isole Malvinas.
Quando i militari consegnarono il governo al radicale Raùl Alfonsín nel 1983 il debito era diventato di 45.000 milioni di dollari. Una cifra di questa dimensione rappresentava un serio condizionamento esterno per il neo-governo.
Il "trapasso morbido" alla democrazia fu scontato a caro prezzo dal popolo argentino. Al Ministero dell'Economia venne posto Juan Martinez de Hoz, che già aveva fatto parte dei governi militari. Occuparono altri importanti posti di potere uomini come Guillermo Walter Klein e Domingo Cavallo. Questi, sotto le giunte militari, erano, rispettivamente, Segretario di Stato per la Programmazione Economica e Presidente del Banco Central. Insomma, i cambiamenti erano solo apparenti: la classe dirigente era la stessa degli anni del terrore. In sei anni di governo radicale il debito aumentò di 15 milioni di dollari. Inoltre, sotto i governi ultra-liberisti di Menem (1989-1999), grazie alle misure economiche studiate dal Ministro dell'Economia Domingo Cavallo (al quale prestigiose Università italiane avevano conferito ben tre lauree "honoris causa"), crebbe fino ad arrivare a 120.000 milioni. Il decennio di Menem è passato alla storia come il "decennio delle privatizzazioni selvagge". La YPF (Yacimentos Petrolíferos Fiscales, l'azienda di Stato per il petrolio) fu svenduta alla spagnola Repsol nel 1999 e l'Aerolineas Argentinas finì nelle mani della compagnia aerea spagnola Iberia. Le cose non migliorarono neanche con Alfonsín: ancor oggi gli argentini ricordano con imbarazzo quando, nel 1984, per racimolare un po' di denaro, il presidente decise di vendere la prestigiosa sede dell'ambasciata argentina a Tokyo, dono dell'Imperatore giapponese all'Argentina, il quale con questo gesto aveva voluto onorare i buoni rapporti diplomatici tra i due Paesi. Le privatizzazioni dei beni pubblici decise dai governanti argentini andavano di pari passo con il deteriorarsi della situazione finanziaria. in cui le amministrazioni pubbliche si trovavano. Una situazione, però, provocata dall'indebitamento forzato imposto alle amministrazioni dalle autorità economiche della dittatura (basti pensare che nel 1983 i debiti della YPF ammontavano a 6 miliardi di dollari).
Stando ai dati del settembre 2004, il debito estero argentino ha raggiunto i 167.153 milioni di dollari, con un incremento (dovuto agli interessi) di 1.721 milioni rispetto al giugno dello stesso anno.
Che il Fondo Monetario Internazionale e i suoi funzionari siano responsabili di questo indebitamento, lo dicono in molti. A cominciare da Joseph Stiglitz (Nobel per l'Economia), ex dirigente del FMI, che ha lasciato perché non ne condivideva più le politiche. Scrive Stiglitz, nel suo libro "La globalizzazione e i suoi oppositori": "L'Argentina non sarebbe mai andata in default, è stata la cattiva politica economica del FMI a produrre questo risultato".

 

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