Pubblicato su Politica Domani Num 43 - Gennaio 2005

Ruanda dopo il genocidio
Ricostruire insieme la pace
Compito fondamentale dell'opera di riconciliazione è riunire vittime e carnefici per trasformarle in un unico popolo

di Daniele Proietto

Quello del Ruanda è un trascorso storico ricco di ingiustizie e di sofferenze. Analizzandolo non è difficile imbattersi in guerre civili e colpi di stato. Tuttavia la palma del periodo più buio e feroce della storia ruandese spetta al decennio appena trascorso (1994-2004), caratterizzato da un numero incredibile di morti (almeno 500 mila) e da atrocità che anche la mente più fantasiosa farebbe fatica ad immaginare.
Il Ruanda è caratterizzato dalla presenza di tre pseudo-etnie, gli Hutu (84% della popolazione), i Tutsi (15%) e i pigmei Twa (1%). Nonostante non vi siano tratti evidenti come ad esempio lingue e culture diverse che distinguano i tre gruppi, i ruandesi non sono mai riusciti a trovare un punto di partenza attraverso il quale riconoscere e rafforzare la loro comune identità. Proprio questa scarsa coesione, unita ad una serie di implicazioni politiche, ha spianato la strada alla guerra appena conclusa, la quale, ironia della sorte, ha effettivamente creato una reale divisione dei ruandesi in due categorie, quella dei colpiti dal genocidio e quella di coloro che lo hanno perpetrato. Il compito fondamentale dell'opera di riconciliazione è proprio quello di riunire queste due "comunità" e di trasformarle in un unico popolo.
Il processo inizia dalla scrittura della storia del Ruanda di questi ultimi anni, il cui insegnamento nelle scuole era stato sospeso nel 1994. Non è semplice creare un testo storico in grado di descrivere opinioni e sentimenti così opposti. La difficoltà risiede persino nella scelta delle singole parole; se per gli Hutu (accusati del massacro), si è trattato di "guerra", per tutti gli altri la definizione più esatta è quella di "genocidio".
Nonostante tutte le difficoltà incontrate, sembra che si stia per trovare una soluzione, come spiega Servilien Sebasoni, consigliere del Segretariato del Fronte Patriottico Ruandese: "Questa situazione è sempre più insostenibile. Molti pensano che si possa insegnare la storia del Ruanda dicendo ciò su cui si è d'accordo e ciò su cui si è in disaccordo. Questo è meglio di niente, e credo che ci si stia avviando a questa soluzione". Sebasoni conclude con una considerazione ed una promessa: "Una parola può avere diversi significati ed è l'uso che la determina. Non saremo tutti d'accordo al cento per cento, ma troveremo il consenso sulle cose essenziali".
Tuttavia il problema fondamentale è un altro, e risiede nella capacità degli scampati al genocidio di perdonare chi ha distrutto le loro famiglie e le loro vite.
Nel Gennaio 2003 sono stati liberati dalle carceri 24 mila detenuti che, di fronte ai tribunali popolari (“gacaca”), hanno riconosciuto le proprie colpe e il loro ruolo nel massacro. Espérance Nyarandegeya, responsabile della commisione dei gacaca, invita i detenuti, soprattutto le donne, a parlare e a confessare la loro colpevolezza: "Lo Stato è pronto a dare una mano in modo che gli scampati, l'altra parte della popolazione, possano perdonare e voi possiate tornare a vivere con i vostri figli e le vostre famiglie. Così, piano piano, la vita potrà tornare più o meno normale. Certo non si può dimenticare, ma si può tentare di rivivere insieme".
Il maggior ostacolo è rappresentato dalla rabbia degli scampati e dalla necessità di sapere perché i loro familiari sono stati uccisi, e, soprattutto, dove giacciono i loro corpi.
Per questo vengono organizzati incontri con i detenuti, inizialmente dominati da rancore e silenzio, dove però successivamente accade qualcosa di straordinario: i detenuti percepiscono il dolore dei famigliari delle vittime e soffrono insieme a loro, si mescolano tra loro dando vita ad un processo di riunificazione guidato da un concetto che va oltre quello del perdono.
Drammatici ma significativi gli esempi raccontati dallo psicologo Simon Gasibirege, come quello di un detenuto che giunto su di una collina per indicare il luogo di sepoltura delle proprie vittime chiede a chi sta scavando per estrarle di agire con premura e attenzione, per evitare che quei poveri resti subi-scano ulteriori sofferenze.
Un'altra triste vicenda riguarda un bambino che, giunto sul luogo indicato dal detenuto, inizia a piangere disperatamente dopo aver riconosciuto tra i cadaveri la camicia di suo padre; il detenuto prende il bambino tra le sue braccia e, stringendolo a sè, scoppia in un pianto ininterrotto.

Quello che spetta al Ruanda è un compito molto difficile, forse persino troppo grande. Il compito delle potenze occidentali invece è quello di controllare che la situazione evolva in maniera corretta, evitando qualsiasi tipo di schieramento, e garantendo il rispetto dei diritti di tutti.

 

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Num 43 Gennaio 2005 | politicadomani.it