Pubblicato su Politica Domani Num 41 - Novembre 2004

La guerra del Darfur
Le ragioni del genocidio
Attriti e rivalità storiche, ma soprattutto la paura di Karthoum di perdere il potere e l'introduzione della armi hanno trasformato gli incidenti fra pastori e agricoltori sul passaggio e la proprietà della terra in un genocidio di stato

di Maria Mezzina

È da un anno che chiamano se stessi gli "Africani" e gli "Emarginati", quasi per stringersi insieme in un abbraccio protettivo. Sono le popolazioni della regione del Darfur: Fur, Masaalit e Zaghawa, le più grandi fra le etnie della regione vittime della violenza dei "Janjaweed" e del regime di Karthoum.
Il Darfur non è mai stata una regione tranquilla, ma le tensioni fra le varie etnie, misurate, sono state sempre risolte per così dire "in casa", con decisioni prese a livello di capi di villaggio come gli accordi sull'uso delle acque a rotazione, l'apertura di vie di passaggio per il bestiame attraverso i campi coltivati, il risarcimento dei danni subiti. All'origine delle tensioni c'erano le migrazioni dei pastori nomadi del nord attraverso le regioni fertili del centro verso il sud. Fra questi i Rizeygat, di lingua e origine araba, e gli Zaghawa, africani e provenienti dal confinante Ciad. Durante la stagione arida si spingevano con le mandrie verso il sud danneggiando i raccolti e le produzioni agricole delle popolazioni stanziali della zona centrale e del sud, in maggioranza Fur, occupandoli anche nel tentativo di sottrarre la terra alla gente del luogo.
Con l'introduzione nella regione delle armi da fuoco automatiche negli anni '80, gli incidenti fra pastori ed agricoltori si intensificarono e divennero sempre più gravi, fino a trasformarsi in sanguinosi conflitti. In seguito alla carestia degli anni '84/85, in cui andarono perdute decine di migliaia di capi di bestiame, i conflitti assunsero la connotazione di vere e proprie guerre fra popolazioni di etnie diverse: fra le popolazioni di origine e lingua araba (in genere nomadi) e le popolazioni africane (generalmente, ma non sempre, stanziali).
Intanto a Karthoum il governo centrale era impegnato in due operazioni (che si riveleranno ambedue fallimentari): l'islamizzazione del Paese, con l'imposizione della Sharia (la legge punitiva musulmana che impone pene quali la pubblica flagellazione, il taglio della mano e la lapidazione) nel sistema giuridico nazionale, applicabile quindi a tutti, anche ai non musulmani; e la sua progressiva divisione, per meglio controllarlo attraverso commissari fedeli al governo e garantire così la "governabilità". Il Paese reagisce all'una e all'altra operazione scatenando una dura resistenza locale contro i commissari ed organizzandosi in gruppi di resistenza paramilitare come lo SPLA/M che scatenano contro il governo una rivolta, abbracciando la causa dell'indipendenza del sud africano, cristiano e animista dal potere centrale.
Intanto il Sudan entra nel gruppo dei "Paesi canaglia" di Bush e mentre da una parte Karthoum cerca di sedare le rivolte, dall'altra lo SPLA/M riceve armi e sostegno dagli USA che mirano a rovesciare il governo. Inoltre, almeno presso certe lobby vicine al Dipartimento di Stato, si spinge per una divisione dell'immenso territorio del Sudan in almeno tre parti: il Sud Sudan con i suoi ricchi giacimenti, l'est di Port Soudan, con i suoi oleodotti, e il resto del paese. La reazione immediata di Karthoum è di stringere forti alleanze con la Russia e la Cina (che hanno, fra l'altro, diritto di veto in seno alle Nazioni Unite).
Tensioni interne e pressioni internazionali si mescolano.
La lotta diventa sempre più feroce. Karthoum invia contro i ribelli le truppe regolari nelle quali, però, si verificano molte diserzioni quando agli ufficiali viene ordinato di bombardare i loro stessi villaggi. Allora, contro i ribelli, vengono armati e garantiti dell'impunità i gruppi, in genere di etnia araba. Entrano quindi nel conflitto anche antichi odi (come fra i Rizeygat e gli Zaghawa) e rancori più recenti, legati al bestiame e alle terre (come fra i Fur e gli arabi Baggara).
È guerra civile, negata dal governo centrale, nella quale si contano decine di migliaia di vittime di etnia Fur, Masaalit e Zaghawa, oltre un milione di profughi e migliaia di villaggi incendiati. La scelta dei villaggi e il modo degli attacchi conferma l'accusa che un vero genocidio è in atto: i villaggi sono prima bombardati dagli aerei Antonov e dai Mig governativi, poi le milizie a cavallo dei "Janjaweed", armate e protette dal governo centrale li attaccano per terra facendo strazio della popolazione e costringendola ad abbandonare le terre.
Tutto questo dal marzo 2003, mentre la comunità internazionale finora ha taciuto e solo da poco, timidamente, sta accusando Karthoum di genocidio programmato.
Nel luglio scorso Kofi Annan ha chiesto al governo sudanese di risolvere il conflitto in corso nel Darfur ed ha parlato della possibilità di mandare nella regione truppe ONU. Anche il segretario di Stato USA Colin Powell ha chiesto il disarmo dei janjaweed e che venga rispettato un calendario per porre fine ai conflitti, ma non ha dato alcuna scadenza. Nè Annan nè Powell, però, nonostante si siano recati in Sudan, sono stati in grado di fermare la guerra e le sofferenze della popolazione: troppo debole l'intervento di Annan e troppo occupato nella campagna elettorale Powell. Karthoum ha respinto i loro interventi come indebiti tentativi di intromettersi nelle vicende interne del Paese.

 

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Num 41 Novembre 2004 | politicadomani.it