Pubblicato su Politica Domani Num 41 - Novembre 2004

Editoriale
Non c'è peggior sordo

di Maria Mezzina

... di chi non vuol sentire. È questo il detto di buon senso popolare con cui è possibile spiegare nel modo più semplice tanti risultati che in qualche modo sorprendono.
Prendiamo l'ultimo evento: la riconferma di Bush per altri quattro anni alla Casa Bianca.
Contro di lui si è mobilitata una moltitudine di intellettuali con la speranza che le informazioni date agli elettori con tutti i mezzi - da Farenheit 9/11 alle inchieste del The Lancet che denuncia in Iraq la morte di 100.000 persone - potessero in qualche modo far pendere l'ago dall'altra parte della bilancia. "Everybody but Bush" (chiunque fuorché Bush) era lo slogan tutto sommato sconsolato e negativo (per Kerry) che circolava in campagna elettorale.
Niente da fare. Con tre milioni e mezzo di voti di vantaggio George W. è stato preferito da un'America che probabilmente come lui non legge i giornali, ma che vede nel suo Presidente, più che il comandante in capo di uno Stato in guerra, il difensore supremo dei valori della famiglia e della morale. Peccato però che questi valori siano urlati ed esibiti come vessilli al vento, impregnati di indisponibilità al confronto e all'accoglienza. Tipico di tante espressioni di intolleranza religiosa e ideologica diffuse soprattutto (ma non soltanto) nell'entroterra degli Stati Uniti e pericolosamente in espansione anche da noi.
Il gran parlare di errori commessi e di bugie e falsità raccontate alla gente dal Presidente e dal suo entourage non è servito, o almeno non è servito abbastanza. Il fatto è che le campagne elettorali - negli US come altrove - soffrono di un difetto fondamentale: una sovraesposizione a rituali di tipo autocelebrativo conditi di poche semplici idee immediatamente riconoscibili, tanto semplici da trasformarsi in poco più che slogan. L'informazione, quella efficace, è molto più complessa, non è immediatamente semplificabile e ha bisogno di essere inserita in un quadro culturale di riferimento. È questo che manca, che le redazioni dei grandi media danno solo occasionalmente, e che neppure la scuola riesce più a dare.
Come ne esce l'America? Certamente Michael Moore ha ragione quando, commentando con ironia i risultati americani, ha detto che fra le 17 ragioni per non suicidarsi c'è il fatto che fra quattro anni G.W. non potrà neanche presentarsi come candidato, e che ci sono almeno 55 milioni di americani che non la pensano come lui. Questo significa che c'è tutto il tempo per pensare, riflettere e "raccogliere i cocci" e che a riflettere hanno cominciato davvero in molti ed è nata perciò una grande speranza.
La spaccatura dell'elettorato USA è soprattutto culturale: gli Stati che hanno votato Bush sono tutti interni, chiusi, quasi ripiegati su se stessi; gli Stati che non lo hanno votato sono protesi verso l'esterno, l'altro, il diverso (cfr. mappa a pagina 5).
Come ne esce l'Europa? Meglio probabilmente che se avesse vinto Kerry. L'Europa è profondamente diversa dagli Stati Uniti. La paziente e difficile costruzione dell'Unione, ancora disseminata di ostacoli, sta trasformando l'Europa in un continente che può veramente essere leader nel mondo. L'Europa può e deve andare avanti da sola. La vittoria di Bush in qualche modo la costringe a farlo e la costringe a dare maggiore slancio ai propri sforzi, purché però i singoli Stati non corrano dietro alla moda americana neoconservatrice, oggi vincente. Paradossalmente mai come ora si può parlare di declino dell'America - un debito pubblico spaventoso, una guerra disastrosa, il crollo della credibilità - e, ora, altri quattro anni di Bush. Il "sogno americano" è finito. Non rimane che sperare e aspettare, come dice Jeremy Rifkin nel suo ultimo libro, il "sogno europeo".
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Negli ultimi mesi tre importanti analisti della politica americana e internazionale hanno previsto la fine del "sogno americano".
Il primo è il sociologo e demografo francese Emmanuel Todd. Nel suo "Dopo l'impero" (Ed. Tropea, 2003 - 192 pgg., 13,00 euro) vede nell'attivismo militare Usa un modo per nascondere la loro intrinseca debolezza.
Il secondo è Anatol Lieven, giornalista britannico, scrittore e storico. In "America wright or wrong" - che ha fatto fatica in America a trovare un editore - Lieben ridimensiona gli Stati Uniti: un paese come gli altri, soggetto alle stesse debolezze e influenze esterne.
Il terzo è Jeremy Rifkin. È nel "Sogno europeo" (Ed. Mondadori, 2004 - 456 pgg., 18,50 euro) la sua tesi: "l'Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano".

 

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Num 41 Novembre 2004 | politicadomani.it