Pubblicato su Politica Domani Num 41 - Novembre 2004

Elezioni Presidenziali Usa 2004
Dopo il voto la stampa si interroga
Una rassegna dei commenti delle più autorevoli testate americane, europee e del mondo arabo e mediorientale

di Roberto Palladino

Ha perso nonostante in Iraq non ci siano armi di sterminio di massa. Ha perso nonostante gli oltre mille soldati americani uccisi nel paese arabo. Ha perso nonostante il deficit economico e i tagli alle tasse per le classi più abbienti. La lista dei vantaggi che tutta l'Europa e parte degli Stati Uniti attribuivano a John Kerry rispetto a Gorge W.Bush potrebbe proseguire. Le cose sono andate diversamente e la formula elettorale del Presidente repubblicano incentrata sulla sicurezza nazionale e sull'intervento preventivo, è risultata vincente rispetto a tutto il resto. Ma c'era un altro vantaggio che il senatore del Massachusetts aveva rispetto a Bush: la stampa.
Sessantasei quotidiani statunitensi hanno appoggiato la candidatura di Kerry contro i cinquantotto schierati per il Presidente. Una differenza di 10,6 milioni di lettori contro i 7 milioni di Bush. Eppure non è bastato. "John Kerry si avvia in modo promettente alle elezioni del 2 novembre con una campagna che è costruita più sull'opposizione a George W. Bush che sulla fedeltà al proprio programma. Ma nel corso dell'anno abbiamo imparato a vedere il senatore del Massachusetts come qualcosa in più che la semplice alternativa allo status quo: ha tutte le qualità per essere un grande capo dell'esecutivo, e non soltanto un piccolo passo in avanti rispetto all'attuale presidente" Così scriveva un mese fa il New York Times, seguito a qualche giorno di distanza dal Washington Post: "Non consideriamo il voto a Mr. Kerry come senza rischi, ma i rischi del campo avverso sono ben noti, e le forze che Kerry può apportare sono considerevoli". Parole chiarem, nette e molto significative se si pensa che l'autorevole quotidiano si era schierato precedentemente per l'intervento militare in Iraq. Un appoggio a Kerry che ha unito le due sponde dell'oceano. "Gli elettori non possono lamentarsi di non avere scelta. Bush e Kerry hanno caratteri, ideologie, filosofie e politiche diverse. Il voto degli americani cambierà il corso del mondo. Noi ci auguriamo che diano fiducia a Kerry" scriveva il britannico The Indipendent mentre lo svizzero Le Temps si augurava che John Kerry restituisse agli States: "un po' della dignità e del buonsenso che l'amministrazione Bush gli ha tolto". Più disillusi i commenti della carta stampata mediorientale. Se per l'egiziano Al Hayat con la rielezione di Bush "molte capitali arabe saranno distrutte e nella regione si accenderà un incendio permanente", gli altri giornali arabi hanno preferito sottolineare che sia Bush che Kerry proponevano una politica molto simile in medioriente. All'insegna quindi dell'appoggio indistinto allo stato di Israele.
Così dunque le maggiori testate della stampa americana, europea ed araba, guardavano al voto del 2 novembre.
I commenti dei giornali americani del dopo voto sono perlopiù intrecciati con la richiesta di un governo più aperto anche alle istanze di quella quasi metà di americani che ha votato per John Kerry. ''Speriamo che il Presidente Bush compensi la sua enorme e giustificabile fiducia in se stesso con un'ampia dose di umiltà. Ciò potrebbe segnare l'inizio di una Casa Bianca per tutti'' scrive il New York Times nel suo primo editoriale dopo la vittoria di Bush. Il Washington Post preferisce puntare dritto al problema dell'Iraq. "Anche questo mandato inizierà con la questione irachena" scrive David Ignatius nel suo editoriale del 5 novembre. "Consiglio al Presidente Bush - continua Ignatius - di annunciare, nel momento dell'elezione di un nuovo governo iracheno, la sua disponibilità a preparare e negoziare i tempi ed i modi del ritiro. Se gestito in maniera saggia, questo approccio segnerà una vittoria per gli Stati Uniti e per lo stesso Iraq". Laura Mekler dell'Associated Press, la più antica e autorevole agenzia di stampa del mondo, preferisce ricordare le tante promesse elettorali di Mr President. "Riforma del sistema fiscale, revisione della sicurezza sociale, stabilizzazione dell'Iraq. Nessuna sarà semplice" scrive la Mekler che ricorda poi come adesso si aprano nuovi equilibri interni grazie al rafforzamento dei repubblicani alla Camera e, soprattutto, al Senato dove erano precedentemente in minoranza, mentre, ora, hanno 55 seggi su 100. "Mentre alla Camera i Democratici non avevano potere, in Senato hanno dimostrato di poter fare fronte comune per poter bloccare le leggi, grazie alla regola che richiede almeno 60 voti per concludere un dibattito. La maggioranza dei repubblicani è comunque ancora troppo esile per potersi dire "blindata". I Senatori Democratici dovranno quindi decidere come utilizzare questo loro piccolo potere". Una questione non da poco visto che la stessa giornalista dell'Associated Press ricorda che tra le proposte di Bush bloccate al Senato c'è anche l'apertura alle perforazioni petrolifere delle riserve naturalistiche dell'Artico.
Sarà davvero un governo più bipartisan come si augurano in molti? "Bush ha detto che si sforzerà per un modello di cooperazione bipartisan - scrive Mark Silva della redazione di Washington del Chicago Tribune - ma ha anche subito chiarito che la sua maggioranza di voti popolari (che non raggiunse nel 2000 ndr), oltre che il suo rafforzamento in parlamento, gli dà la forza per portare avanti le sue priorità con o senza i Democratici". È chiaro che anche i problemi più interni, come deficit e riforme sociali, quando riguardano gli Stati Uniti, finiscono per interessare tutto il mondo. Preoccupato per le finanze pubbliche americane è il progressista Haaretz, quotidiano israeliano, "La vera sconfitta in questa tornata elettorale è l'economia americana. Bush inizierà il suo mandato con uno dei più grandi deficit nella storia americana - scrive Guy Rolnik - Bill Clinton lasciò i bilanci in pareggio: Bush ha provocato un deficit di 450 miliardi di dollari". "L'America ha votato per Bush, ed il mondo dovrà vivere con le conseguenze" scrive il britannico The Independent. Un'analisi inedita è quella di Philip James, ex stratega del Partito Democratico, per il quale a fare la differenza in queste elezioni sono stati i "valori morali". Scrive James sul britannico The Guardian "Un quinto dei votanti si è definito di religione evangelica. Gli evangelici sono stati uno dei fattori delle elezioni politiche americane per decenni - ricorda James - ma solo quest'anno il loro apporto è stato decisivo. Bush ha conquistato i loro voti con un margine schiacciante". Infine la disillusione già presente sulla stampa araba esce rinforzata dagli esiti del voto americano. "Senza dubbio, la vittoria di Bush - scrive Rasheed Abou-Alsamh su Arabnews.com - ha ridimensionato tutti gli Arabi Americani ed i Musulmani che speravano che un cambiamento nella leadership potesse cambiare la palpabile predisposizione anti-Araba ed anti-Musulmana della guerra degli Usa al terrore. Quello che in molti non comprendono è che dopo l'orrore dell'11 settembre 2001, la maggioranza degli americani è pronta ad appoggiare un approccio duro al terrorismo in tutto il mondo, anche se questo a volte calpesta i diritti civili delle popolazioni".

 

Homepage

 

   
Num 41 Novembre 2004 | politicadomani.it