Pubblicato su Politica Domani Num 41 - Novembre 2004

Darfur, le genti

m.m.

Crogiolo di etnie, il Darfur, spesso provenienti dalle regioni confinanti del Ciad. Due i gruppi principali distinti per la lingua e per i mezzi di sostentamento: gli arabi "Baggara", e gli "Zurga" o "neri".
Fra i "Baggara" ci sono le numerose tribù di origine e lingua araba. Così chiamati perché proprietari e pastori di grandi mandrie (bovini ed ovini), sono arabi di origine semitica. Tipici nomadi, si sono spostati verso il Sudan lungo il corso del Nilo a partire dal 13° secolo, estromettendo dalle loro terre le popolazioni indigene dei Nuba. Oltre un milione, sono il secondo gruppo più numeroso dopo gli africani ed hanno la fama di essere dei feroci combattenti. Con questo nome sono indicate numerose tribù fra le quali, nel Darfur, i Rizeigat, la più numerosa, e i Misseiria.
Gli "Zurga" sono popolazioni indigene stanziali della zona centrale del Marra, la più fertile. Sono africani di origine, musulmani per conversione (dal 14° secolo), e non parlano arabo.
Oltre ai Fur, da cui la regione prende il nome, che è il gruppo più numeroso e quello di cui si hanno nella regione le tracce più antiche, ne fanno parte etnie minori come i Masaalit, i Tama, i Tunjur, i Bergid e i Berti. Occupazione primaria dei Fur è l'agricoltura, ma in passato era fiorente il commercio degli schiavi, specie con l'Egitto. Una "merce", gli schiavi, che i Fur avevano l'abitudine di procurarsi a migliaia con la cattura di prigionieri delle tribù arabe con le quali venivano in contatto, specie i Rizeigat .
Anche se appartenenti al gruppo degli africani, una realtà a parte sono gli Zaghawa, detti anche Beri. Seminomadi, di origini molto antiche - la loro presenza nella regione risale al 7° secolo -, dediti alla pastorizia ma anche al commercio e all'artigianato, gli Zaghawa del Darfur vengono dal Ciad dove ancora risiedono. Causa delle migrazioni massicce sono state la siccità degli anni '72/73 e la carestia degli anni '84/85.
Si sono stabiliti con i loro accampamenti attorno ai centri più grandi - le città di El Fasher e di Nyala - dove, più numerosi di quelli rimasti in Ciad, divenuti abili commercianti, tengono sotto controllo tutti i mercati del Darfur (anche se le loro disponibilità economiche sono precedenti e derivano dalle attività svolte nelle ricche regioni petrolifere dei paesi arabi).

 

Darfur, il sacrificio

Fuggono dalle bombe, dagli incendi dei loro villaggi e dalla violenza degli attacchi per terra dei famigerati "Janjaweed". I guerriglieri a cavallo e su dromedari, armati, pagati e protetti dal governo centrale di Karthoum, attaccano i villaggi dopo che questi sono stati sistematicamente bombardati dagli aerei Antonov e MIG governativi. La strategia è sempre la stessa, tanto da convincere le popolazioni che è in atto una vera e propria pulizia etnica.
Fonti autorevoli (Onu, ICG, HRW) parlano di 50.000 morti (o anche 80.000 vittime) e di un milione e 500 mila profughi. L'entità esatta della tragedia non è nota perché il governo ha a lungo negato l'accesso agli operatori internazionali e ai giornalisti.
Nei campi i profughi mancano di tutto e sono guardati a vista dalla polizia sudanese. Attendono che qualche Ong porti loro del cibo e dell'acqua e intanto continuano a morire per denutrizione, stenti e malattie, soprattutto i bambini e gli anziani.
Sono numeri e condizioni che non colpiscono l'opinione pubblica mondiale perché da quei campi non arrivano immagini.
L'Unione Africana (UA) con l'aiuto finanziario dell'Unione europea (12 milioni di euro) aveva mandato una sua commissione, l'AUCFC, per controllare quanto avviene in Darfur. Ma gli osservatori militari non armati - 137, al comando del generale nigeriano Oknokwo e del colonnello francese Davoine - sono difesi solo da 300 militari armati: un compito impossibile, "una funzione che almeno permette ai politici di dire che qualcosa si sta facendo", ammette un alto militare europeo.
Ora (fine di ottobre) la Commissione europea ha deciso di impegnare 80 milioni di euro e 3.144 uomini: 626 osservatori militari, 1.073 soldati, e 815 civili.

mia

Darfur, il territorio

Diviso in tre zone, Gharb, Janub e Shamal (Nord, Ovest e Sud), il Darfur copre una superficie di 196.555 km² a NordOvest del Sudan, neanche l'8% dell'immenso territorio sudanese (oltre 2.505 milioni di km²), è grande tuttavia quanto i due terzi dell'Italia.
Arido per la maggior parte: deserto sabbioso a nord, fertile al centro, nella striscia del Jebel Marra, la più adatta alle coltivazioni, dove svettano fino a 3000 metri le cime vulcaniche, è ricoperto al sud da una vegetazione bassa a cespugli; un ecosistema fragile devastato da siccità ed eccesso di piogge. Su questa terra difficile e in gran parte arida vivono (o meglio vivevano) 3,1 milioni di persone la cui economia, fino a poco più di un anno fa, era basata sulla pastorizia nelle zone più aspre, sull'artigianato nei periodi aridi dell'anno e sulla coltivazione di cereali, frutta e tabacco in piccolissimi appezzamenti. Un'economia di sussistenza per la quale sono vitali le risorse d'acqua dei pozzi scavati nei villaggi e delle cisterne, nelle quali vengono raccolte le precipitazioni della stagione piovosa, da luglio a ottobre. Risorse di acqua che servono per le persone, per l'irrigazione e per gli animali.
Il processo di desertificazione delle zone del Nord, la siccità degli anni '70 che portò alla carestia divenuta drammatica nel 1984/85, l'indifferenza e l'incapacità di intervento del Governo centrale (tenuta peraltro nascosta alla comunità internazionale, alla quale è stato impedito di intervenire) hanno ulteriormente impoverito la terra e costretto molti, specie al Nord, per sopravvivere, ad abbandonare i villaggi per andare nella grandi città capitali delle tre regioni, Al Fashir, Al Junaynah e Nyala.

 

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