Pubblicato su Politica Domani Num 39/40 - Set/Ott 2004

La missione di pace
Quando le parole valgono una vita

di Roberto Palladino

L'informazione sull'Iraq si occupa sempre meno dell'oggi pensando già a quanto accadrà tra un mese, tra un anno, nel 2010. Quando saranno liberati gli ostaggi? Le elezioni ci saranno davvero nel Gennaio del 2005? Quando andranno via gli americani? E gli italiani quanto resteranno? E al posto loro chi verrà, l'Onu? La Nato? Tutto questo perché occuparsi della cronaca della giornata significa perlopiù compiere un triste, ormai stantio, elenco di rapimenti, bombardamenti, agguati ed attentati. E ragionare su quanto accaduto, sulle ragioni dell'attuale caos iracheno, può forse sembrare di cattivo gusto, con il sangue ancora fresco dell'ultimo ostaggio decapitato o le immagini, mostrate meno frequentemente ma altrettanto crude, dei civili sotto le macerie dell'ennesimo raid della coalizione.
E allora di cosa ragioniamo qui? Delle parole. Perché come diceva Nanni Moretti, in un suo celebre film, "le parole sono importanti". Perché forse sono state proprio delle parole a mettere nei guai Enzo Baldoni, Simona Torretta e Simona Pari. Ma quali parole? I vocaboli, anzi il vocabolo, è uno solo: pace. Alla pace fino a prima della guerra in Iraq abbiamo sempre associato, la colomba, le bandiere dell'arcobaleno, le manifestazioni, i sit in e "blowing in the wind".
Enzo Baldoni, Simona Torretta e Simona Pari erano in Iraq per aiutare la popolazione. Erano contrari alla guerra, erano pacifisti. Da una parte loro, dall'altra tutto il resto. Dubbi non sembrano esserci. I tre italiani non si trovavano in Iraq a fare gli scudi umani, ma erano attivi negli aiuti, nell'assistenza umanitaria. Ecco che le parole tornano ad essere importanti e che le distinzioni cominciano a diventare più confuse. Si perché se poniamo il tutto sul piano umanitario, i nostri militari e i tre italiani si trovavano in Iraq esattamente per lo stesso scopo: portare aiuti umanitari e dare assistenza alla popolazione.
Una provocazione? Non proprio. Ancora una volta un questione di parole. "Un ponte per…" nasce proprio per "rimediare" alla prima guerra del Golfo, aiutare la popolazione irachena ad andare avanti nonostante le macerie, l'embargo e la dittatura. L'Italia, anche se non ha partecipato attivamente alla prima fase della guerra in Iraq, la ha di fatto sottoscritta inviando i propri uomini a sorvegliare un territorio, sottratto da un altro stato, gli USA, ad una nazione sovrana, l'Iraq. Le motivazioni ufficiali di questa guerra, è noto, erano le armi di distruzione di massa in possesso di Saddam. Un anno e mezzo fa, in molti, non solo politici ma anche autorevoli giornalisti, erano pronti a scommettere che quelle armi sarebbero state trovate. Ma la pistola fumante, tanto cara a Bush, non è stata trovata. L'Italia nonostante questo e nonostante il Segretario dell'Onu Kofi Annan abbia definito la guerra "illegale", mantiene il suo contingente in Iraq. Ma il linguaggio utilizzato per definire la nostra missione è simile, troppo simile al linguaggio della pace per essere un caso. Definire una missione "umanitaria", è senz'altro più digeribile che parlare di uomini armati fino ai denti, a volte costretti anche a sparare e a uccidere per difendere la propria posizione. Il proprio territorio. La propria vita.
E così in questo vortice di significanti e significati sono andati a finire coloro che le armi neanche le volevano vedere da lontano come la Pari e la Torretta o chi, armato solo del suo traduttore, apriva con la propria auto i cortei di aiuti della Croce Rossa come Baldoni. Un utilizzo delle parole che ha contribuito a mettere tutti sullo stesso piano. Chi ha rapito i tre italiani non ha fatto distinzioni tra ruoli e posizioni, ma ha deciso che erano obiettivi, in quanto occidentali, in quanto stranieri, in quanto italiani. Gente di pace, confusa con gente di guerra.

 

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