Pubblicato su Politica Domani Num 39/40 - Set/Ott 2004

Recensione
"La grande impresa federale europea"
A partire da un libro del prof. Dario Velo, le riflessioni di un economista italiano

di Marco Vitale

In una lezione inaugurale del corso ISTAO, nel 1988, dal titolo: “Il management è una disciplina antica. Riflessioni contemporanee sull’Economico di Senofonte” affermavo:
«La dottrina manageriale, avendo a che fare con temi come potere e responsabilità, servizio e proprietà, organizzazione, evoluzione e trasmissione del “saper fare” dell’uomo, viene a incrociare un punto centrale dello sviluppo culturale generale. Ed è proprio nel non essersi saputa collocare in questo punto centrale dell’evoluzione culturale generale che risiede l’incultura della dottrina del management. È mia convinzione che la dottrina e quindi la pratica manageriale non riusciranno a passare a una fase più matura della loro elaborazione se non riusciranno a collocare le loro problematiche fondamentali in una prospettiva culturale più ampia e propria, che comprenda la teoria della responsabilità, della proprietà, delle organizzazioni sociali e del loro finalismo, dei processi di apprendimento, dello sviluppo generale.»
Da allora questo è stato uno dei temi centrali della mia riflessione. Tante sono state le occasioni che mi hanno permesso di approfondire, in relazione ad aspetti specifici, la mia critica alla teoria d’impresa dominante, per la sua mancanza di spessore culturale e per l’assenza della ricerca di precise interrelazioni con altri aspetti dell’agire umano organizzato e, di conseguenza, con altre discipline connesse.
Mi riferisco alla mancata comprensione del fattore umano come protagonista dello sviluppo e non come risorsa. In una conferenza tenuta il 27 aprile 1987 dal titolo “Sviluppo, tecnologie, risorse umane” affermavo: «Mi resta, forse, da dire ancora qualcosa sul terzo concetto incluso nel titolo che è stato assegnato alla mia conversazione: le risorse umane. Forse il mio pensiero in argomento è già implicito in quanto ho sin qui detto. Voglio tuttavia aggiungere che non amo questa espressione: risorse umane. Perché è un’espressione che già evoca quasi un’estraneità dell’uomo al progetto organizzativo e di sviluppo, un suo essere oggetto. L’uomo non è una risorsa, come il petrolio o come il cotone. L’uomo è il protagonista dello sviluppo. L’uomo è lo sviluppo. Questa affermazione deriva certamente da un mio paradigma culturale, morale e politico. È, se volete, la mia scelta, il mio progetto, il mio “desiderio”, nell’ambito dei quali cerco di muovermi. E se questa visione si collocasse su di un piano puramente personale potrebbe essere del tutto irrilevante, se non futile, parlarne. Ma io credo che l’osservazione storica, tecnica, sociale ed economica permetta, anche su questo punto, delle riflessioni non del tutto soggettive. Io so bene che l’uomo è stato, in molti ambienti e in molti luoghi, considerato e trattato non solo come una semplice risorsa, ma come un’infima risorsa, a buon mercato perché facilmente riproducibile: è stato certamente così per gli indios che cavavano argento a Potosì per finanziare le guerre della cattolicissima Spagna; è stato certamente così per gli schiavi negri trapiantati in America (non dimentichiamo che l’istituto della schiavitù è stato malamente abolito solo poco più di 100 anni fa); è stato certamente così in tanti luoghi dell’imperialismo coloniale; è stato certamente così nella campagne staliniane; è stato certamente così in tanti luoghi di sanguinosi conflitti di lavoro (pensate che ancora nel 1914, negli avanzati Stati Uniti, l’amministrazione delle miniere di Ludlow, Colorado, fece affrontare uno sciopero da un carro armato che sparò a vista sugli scioperanti); è stato certamente così nei campi di lavoro nazisti; è stato certamente così nel Giappone militarista; è stato certamente così in tanti luoghi del nostro latifondo meridionale ancora negli anni Cinquanta. Io conosco bene queste cose e so che in molti luoghi questa violenza è ancora così forte e lo sarà ancora a lungo. E certamente questa violenza sull’uomo è sempre in agguato, è sempre pronta a ritornare anche dove sembra sconfitta. Ma riflettiamo un attimo. In tutti i luoghi dove, attraverso tante lotte e sofferenze, si è innestato uno sviluppo sociale ed economico positivo e duraturo, è prevalsa una visone ben diversa: una visione dove l’uomo non è una risorsa, ma protagonista dello sviluppo. È una conquista labile, ancora tanto fragile, ancora tanto incompleta. Ma che va avanti. Che resiste e si rafforza. Il Grande Fratello non solo non ha vinto, ma è in ritirata.»
Mi riferisco alla futilità e velleitarietà che si sono scatenate, io dico fondamentalmente per ragioni di moda e di bottega, nell’ultimo decennio sul tema della “Business Ethic” e dalle quali ho sempre preso le distanze con vigore.
Mi riferisco alle analisi delle grandi crisi aziendali che, lucide e tecnicamente corrette, si fermano sempre al punto giusto, alle colonne d’Ercole per passare le quali sono necessarie moralità, coraggio, prospettiva storica e visione; come è il caso di un interessante libro di Sydney Finkelstein, la cui traduzione è di prossima pubblicazione per i tipi della Rizzoli e della quale ho scritto: «Finkelstein sottolinea che le cattive abitudini dei CEOi che il gruppo di ricerca da lui guidato ha individuato come fattori chiave delle grandi crisi aziendali studiate sono cattive abitudini che “in quanto società non solo tolleriamo ma incoraggiamo”; questo è il punto. E da qui inizia il ragionamento vero. Ma qui Finkelstein si ferma. Per andare avanti bisogna, infatti, sviluppare un concetto adeguato e corretto dell’impresa e del suo ruolo nella società; bisogna collocare in una visione meno perversa e puerile di quella corrente i CEO, i loro doveri, la loro retribuzione; bisogna sviluppare non una cabarettistica “business ethic”, secondo la prassi dominante, ma una morale profonda del management legata alla teoria generale della responsabilità.»
Le analisi tecniche sono sempre più acute, le ricerche sottostanti sono sempre più ricche ed approfondite. Ma quando si tratta di estrarre dalle stesse un pensiero ci si ferma, quasi esauriti dallo sforzo, o quasi spaventati da dove si potrebbe andare a finire. Ma soprattutto ci si ferma perché la teoria d’impresa non è in grado, da sola, di fare luce sui veri problemi dell’impresa. Essa ha bisogno di altre componenti culturali, di interconnessioni con altri saperi. Negli ultimi venti anni ho letto alcune centinaia di libri di teoria aziendale. Ma se mi sforzo di ricordare quelli che mi hanno lasciato una traccia profonda e vera non riesco ad andare oltre i nomi di Drucker e di Porter, non a caso, provenienti entrambi da saperi diversi. Il primo approda alla materia aziendale da una solida cultura storica, politica, organizzativa, mitteleuropea; il secondo da studi dell’economia generale e industriale.
Ora viene questo breve (91 pagine in tutto) ma densissimo libro di Dario Velo a riproporre un autentico e creativo sforzo di pensiero nel campo della teoria d’impresaii. Anche Dario Velo, professore di materia aziendale all’Università di Pavia, incrocia più saperi. È profondo conoscitore della teoria e pratica d’impresa. Ma è anche un sicuro conoscitore dell’economia politica ed in particolare dell’economia internazionale. Ed è da sempre partecipe del processo di integrazione europea, sia come studioso che come militante. Il suo importante contributo è frutto di un autentico sforzo di pensiero che fonde questi diversi saperi, pensiero alimentato da una precisa prospettiva storica ma proiettato sul futuro. E con il coraggio di indicare prospettive nuove che molti definiranno irrealistiche, utopistiche, esattamente quello di cui abbiamo bisogno.
Confesso che dei vari temi che si intrecciano nel saggio di Velo, quello che mi interessa di più è quello sulla concezione d’impresa. L’impresa si è evoluta da soggetto che interessa e si interessa solo degli azionisti, a soggetto complesso che interessa e deve interessarsi di una molteplicità di effetti e dunque del suo ruolo, del suo impatto, della sua funzione nella società. Secondo Velo l’impresa che sta prendendo corpo sotto i nostri occhi non si pone all’incrocio solo di interessi presenti ma deve tenere conto e rendere conto del suo operato anche alle generazioni future. Così la visione a lungo termine e l’etica d’impresa si radicano profondamente nell’essenza stessa dell’impresa. Il compito dell’impresa nella società non è solo di produrre profitti per gli azionisti, ma di essere soggetto protagonista del modello di sviluppo. Questa concezione dell’impresa non può non collocarla tra i soggetti politici: “L’impresa viene in tal modo concepita come un corpo politico, nel senso istituzionale del termine. Il processo decisionale che in essa si svolge fa parte del governo del sistema, concepito come insieme di processi decisionali articolati secondo le regole della sussidiarietà… l’impresa entra a pieno diritto a far parte dello Stato, portando con sé la propria specificità…. Concepire l’impresa come corpo intermedio nell’ambito di una statualità in divenire, significa calare la teoria d’impresa in un processo in corso volto a ridisegnare il governo del mondo nel lungo periodo”.
Si tratta di un’impostazione fertile di importanti conseguenze: contrappone l’impresa cosmopolita (che si inserisce in un nuovo ordine statuale mondiale in costruzione) all’impresa multinazionale (che si basa invece sulla assenza di uno Stato regolatore e garante come opportunità); restituisce l’impresa al più genuino modello liberale (“un mercato in assenza di uno Stato non è patrimonio culturale della tradizione liberale”); riapre la prospettiva di un nuovo umanesimo economico nell’ambito del quale nell’organizzazione aziendale che ha sempre concepito il lavoratore come uno strumento, una risorsa, l’uomo ritorna ad essere un fine; in questo modo l’economia e la teoria d’impresa slitta dall’area della tecnica all’area della cultura. Ci ricongiungiamo così, finalmente, alle parole di Socrate nel finale dell’Economico di Senofonte.
Questa concezione d’impresa si pone agli antipodi di quella che, promossa e diffusa dalle grandi società di consulenza e dalle grandi banche d’affari americane ha, negli ultimi venti anni, creato danni immani, concreti, intellettuali e morali. Mi riferisco alla teoria dell’impresa come creatrice di valore solo per gli azionisti.
Questa rinnovata concezione d’impresa ha più possibilità di affermazione in Europa che altrove. Non solo perché è più facile trovare qui lo spessore culturale che questa concezione richiede, ma perché essa sembra congeniale all’originale ed ardito processo di costruzione di una nuova statualità in corso in Europa, lungo sentieri impervi e mai percorsi prima, che trovano nel concetto di sussidiarietà la loro bussola. Questo concetto può essere guida anche per la nascita di grandi imprese federali europee, anche promosse dalla mano pubblica ma autonome, secondo il modello della Banca Europea: “L’autonomia dell’impresa federale, in questo quadro, è tutelata dal suo essere impresa,m che deve mantenersi competitiva sul mercato interno e internazionale”.
Passando attraverso una ricostruzione storica breve ma efficace e veritiera della grande impresa pubblica in Italia, Francia, Germania, Velo delinea la possibilità, anzi la necessità di imprese europee di largo respiro, inserite nella nuova statualità europea in formazione, capaci di assolvere compiti che trascendono le possibilità nazionali. La proprietà pubblica, privata, mista non è il fattore rilevante; il fattore rilevante è l’autonomia, nell’ambito del principio di sussidiarietà, la responsabilità nell’ambito della concezione umanistica d’impresa sopra delineata, la capacità di stare sul mercato internazionale come garanzia per evitare degenerazioni in chiave di potere politico.
Velo indica l’energia come il campo ideale in cui una grande impresa federale europea potrebbe dare il meglio di sé, ed il suo argomentare è convincente. Ma si può pensare ad altri campi di grande rilevanza, come l’ambiente, i trasporti, la ricerca su frontiere d’avanguardia.
Che nascano o meno grandi imprese federali europee (e l’auspicio è che nascano), la nuova concezione d’impresa delineata da Velo è già tra noi. Velo la individua, la legge, la interpreta, la fa emergere. Con questo contributo la teoria d’impresa fa, finalmente, un passo avanti.

i CEO = Chief Executive Officer
ii Dario Velo, La Grande Impresa Federale Europea, Per una teoria cosmopolita dell’impresa, Giuffré Editore, 2004, pag. 91, euro 7,00

 

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