Pubblicato su Politica Domani Num 39/40 - Set/Ott 2004

Elezioni di Novembre
Dalla farsa alla tragedia
Dopo quattro anni di governo fallimentare Bush rischia di essere rieletto, grazie anche alla miopia dell'Europa

di Alberto Foresi

Meno di un mese, e gli Americani andranno alle urne per scegliere l'uomo che dovrà guidare la loro nazione e che, di fatto, avrà in mano i destini del mondo. A noi, lontani osservatori, la scelta in verità appare non facile: da una parte c'è il presidente uscente il cui governo è stato spesso, per molti versi, inadeguato di fronte alla drammatica realtà; dall'altra c'è lo sfidante, apparentemente privo di leadership e di carisma, con un programma di governo confuso e contraddittorio.
Il quadriennio di presidenza Bush è stato uno dei più drammatici nella storia degli Stati Uniti, con eventi paragonabili, per gravità, solo al secondo conflitto mondiale o alla guerra in Vietnam. L'inizio del mandato di Bush fu farsesco: il conteggio dei voti sembrava non finire mai e la proclamazione della sua vittoria su Al Gore che ha suscitato parecchie perplessità sulla reale attendibilità del riscontro numerico. Nell'elettorato statunitense è rimasto da allora più di un dubbio sul fatto che Bush fosse stato realmente il presidente scelto dai suoi cittadini. Ben presto, tuttavia, la farsa venne sostituita dalla tragedia.
Con l'11 settembre 2001 gli Stati Uniti si trovarono di fronte al primo attacco esterno sul proprio territorio. L'evento è paragonabile solo all'incursione aerea giapponese su Pearl Harbour, che segnò l'ingresso degli Usa nella II guerra mondiale. La differenza, non trascurabile, è che stavolta si colpiva New York, il cuore stesso della nazione, nei luoghi simbolici del suo potere economico e politico-militare, e non le isole Hawaii, un'area che, per quanto territorio americano, era di fatto marginale. Di fronte alla drammaticità degli eventi la nazione si strinse attorno al suo presidente, ponendo drasticamente fine a tutte le polemiche conseguenti alla sua elezione. Ma fu proprio allora che cominciarono lentamente ad evidenziarsi le pecche e i limiti dell'attuale governo. Di fronte all'attacco, la reazione di Bush fu inizialmente improntata ad una sostanziale moderazione: venne evitata una immediata ed indiscriminata ritorsione aerea, che molti temevano e altrettanti auspicavano, e furono condotte indagini per identificare i reali artefici del crimine. Contemporaneamente il governo cercò di coinvolgere la più ampia possibile comunità internazionale nella lotta contro un terrorismo che si era dimostrato in grado di compiere azioni fino ad allora impensabili. Non solo. L'attacco terrorista aveva mosso su posizioni filoamericane buona parte dell'opinione pubblica mondiale; persino soggetti tradizionalmente ostili al potere statunitense, trovavano giustificabile anche l'eventualità di una decisa reazione bellica.
È in tale contesto politico che si procedette all'invasione dell'Afghanistan - azione intrapresa da un'ampia coalizione con il sostegno delle Nazioni Unite -, che, nonostante il rilevante tributo di vite umane innocenti, ha comunque portato all'abbattimento del sanguinario e liberticida regime dei Talebani. Ma questo è stato un dato accessorio. L'Afghanistan infatti non fu invaso per liberarlo dal potere degli integralisti islamici ma perché si riteneva che, con la sua conquista, sarebbe stato debellato il pericolo terrorista. Un'aspettativa rivelatasi presto infondata. Con Bin Laden libero e l'immutata minaccia terrorista, la spedizione in Afghanistan rischiava di porre in evidenza i limiti della politica occidentale e nello specifico, la sostanziale inutilità dell'iniziativa statunitense.
Queste, probabilmente, furono le motivazioni dell'invasione anglo-americana dell'Iraq: distogliere l'opinione pubblica dal fallimento afgano, creare un nemico, Saddam e l'Iraq, da abbattere per riaffermare la supremazia statunitense e, elemento non insignificante, porre sotto controllo buona parte delle riserve petrolifere mondiali. E Saddam era un nemico apparentemente debole, in quanto odiato dal suo popolo - secondo i soliti profughi tanto opportuni quanto inattendibili -, privo di reali potenzialità militari (nonostante la favola delle armi di distruzione di massa) e, soprattutto, che si poteva sconfiggere in una guerra lampo basata su una superiorità aerea che avrebbe consentito una facile marcia su Baghdad, evitando così di impantanarsi in una guerra di guerriglia simile a quella patita dai Sovietici in Afghanistan e dagli stessi Americani in Vietnam.
Le previsioni sono risultate completamente sbagliate. Fortunatamente, in quanto già si teorizzava l'allargamento del conflitto ad altre nazioni non gradite a Washington, come la Siria, l'Iran e la Corea del Nord, nella folle utopia neoconservatrice di esportare la democrazia nel mondo. Quasi fosse Coca Cola, la democrazia, e non il prodotto della secolare maturazione politica, civile e sociale di un popolo.
Il popolo iracheno ha dimostrato di considerare la presenza straniera un'effettiva invasione e non una liberazione dal tiranno. La guerra si è rivelata per gli Occidentali molto più sanguinosa di quanto si prevedesse (i morti iracheni, si sa, sono un puro dato numerico). Il Paese è nel caos più totale, sprofondato in una selvaggia anarchia in cui sono proliferate bande di ogni genere e colore, senza nessuna concreta possibilità, almeno a medio termine, di pacificazione. La ricostruzione, in un simile contesto, è di gran lunga lontana dal garantire i guadagni previsti. Persino il prezzo del petrolio ha raggiunto il suo massimo storico (vicino ai 50 dollari al barile), anche a causa dei continui sabotaggi cui sono soggetti gli oleodotti iracheni.
È il bilancio fallimentare della dissennata politica estera dell'amministrazione Bush, alla quale si sono docilmente piegati i governi inglese, italiano e, inizialmente, anche quello spagnolo. E non è tutto. Dopo l'iniziale solidarietà conseguente all'11 settembre, si segnala anche un forte e pericoloso rigurgito di antiamericanismo che ricorda tempi e ideologie dal vago sapore archeologico. Si sono moltiplicate polemiche e inchieste interne agli USA sulla sottovalutazione del pericolo terrorista. È montato il disgusto e l'orrore per certe procedure usate sia in Afghanistan, sia in Iraq, come i bombardamenti indiscriminati e i maltrattamenti nei confronti dei prigionieri. A tutto ciò si aggiungono i forti malesseri interni dovuti sia ad una congiuntura economica sfavorevole che sembra non essere a breve termine, sia ad una politica economica mirante a minimizzare aiuti ed assistenza nei confronti delle sempre più numerose fasce deboli.
Non siamo di fronte ad un fallimento ma ad una catastrofe. Eppure, nonostante tutto questo, Bush appare nei sondaggi nuovamente e abbondantemente in testa nei confronti dello sfidante Kerry. Fenomeno questo che appare quanto meno strano a molti di noi. Forse che gli americani sono tutti sanguinari colonialisti? O, come spesso si dice, sono completamente ignoranti dal punto di vista politico? Oppure sono diventati tutti miliardari con interessi enormi nella ricostruzione dell'Iraq? Purtroppo no. Il problema non è in questi termini.
Prima di tutto lo sfidante Kerry, ritenuto (senza motivo) un pacifista dall'opinione pubblica europea, appare spesso confuso e finanche ambiguo, in un impossibile tentativo di conciliare all'interno del suo elettorato l'ala radicale e quella moderata, risultando così anche menomato da una sostanziale carenza di leadership (e, forse, il centro-sinistra nostrano avrebbe di che riflettere al riguardo). Ma la logica della scelta del meno peggio, a cui noi Italiani siamo tristemente abituati, non è probabile che funzioni negli USA. Il vero problema è che per buona parte degli Americani Bush incarna, nonostante i suoi palesi limiti, l'ideale dell'uomo forte che sa prendere decisioni e portare a termine le iniziative intraprese. È colui che ha il coraggio di ignorare le delibere dell'ONU e le critiche di nazioni anche sue alleate. È in sostanza l'uomo di frontiera, il cow boy in grado di assicurare al suo popolo lo sfruttamento di nuove terre e, in fondo, di aprire finalmente i popoli sottomessi al grande circo del consumismo e della globalizzazione.
Noi europei dissidenti, nel valutare le reali possibilità di un secondo mandato di Bush, commettiamo un errore fondamentale: confondiamo le nostre aspettative con la realtà. Per questo attribuiamo enorme credito a registi, scrittori e cantanti, critici nei confronti di Bush e del suo governo, pensando che siano rappresentativi di un'ampia fetta dell'elettorato americano e non ci rendiamo conto che essi, per trovare consensi (e magari guadagnare anche un po' di quattrini), sono costretti a venire in Francia o in Italia.
Se Bush, come appare probabile, sarà rieletto, la responsabilità è anche, e soprattutto, dell'Europa e delle Nazioni Unite. Il presidente dell'ONU, Kofi Hannan, ha recentemente definito la guerra in Iraq illegittima, ma gli Americani, come e più di quasi tutti gli altri popoli, non sopportano intrusioni esterne al loro operato. L'Unione Europea si è spaccata in due opposte fazioni: da una parte le nazioni servilmente fedeli agli Stati Uniti, capofila l'Italia, dall'altra gli stati più vanamente ostili al conflitto, quali la Francia, la Germania e, in una particolare posizione, il Vaticano.
Il pacifismo va infatti sorretto da un adeguato impegno politico, diplomatico e, in ultima analisi, anche militare per evitare i conflitti e per mettervi una pezza dopo che le situazioni sono ormai degenerate. Altrimenti rimane una semplice dichiarazione di intenti, apprezzabile ma inutile e sterile nella realtà.
L'idea di lasciare cuocere gli Stati Uniti nel brodo che essi stessi hanno preparato non porterà troppi benefici: e stavolta non c'è in ballo solo il Vietnam, ma un'area ben più importante per i nostri interessi e per la nostra stessa sopravvivenza, e, in aggiunta, c'è l'inquietante spettro di un conflitto globale su base religiosa. Se ancora per quattro anni i destini del mondo saranno nelle mani di Bush, non lamentiamoci troppo, pensiamo piuttosto che è anche merito nostro.

 

Sfida Bush-Kerry

30 settembre. 62,5 milioni di americani hanno visto in tv il dibattito elettorale tra il presidente George W. Bush e il suo sfidante democratico John Kerry. Sono i dati definitivi sugli ascolti del confronto tra i due contendenti per la Casa Bianca raccolti dalla Nielsen, superiori ai primi risultati parziali che parlavano di 55 milioni di telespettatori.

Dopo il primo faccia a faccia televisivo, Kerry ha scavalcato il presidente Usa nelle intenzioni di voto degli americani. Secondo un sondaggio di Newsweek, Kerry ha il 49% delle intenzioni di voto e Bush il 46%. Se si tiene conto del candidato indipendente Ralph Nader, Kerry è al 47% e Bush al 45%. L'ultimo rilevamento di Newsweek dava Bush al 49% e Kerry al 43%, con Nader al 2%.

Alcuni argomenti del dibattito: la guerra al terrorismo, il ritiro dall'Iraq, la minaccia più grave per la sicurezza nazionale, il problema della questione nucleare in Corea del Nord.

Rompendo le regole del gioco richieste dalla campagna di Bush e approvate nel memorandum d'intesa, la Cnn ha inquadrato entrambi i candidati in simultanea. Bush è apparso più volte a disagio, scuotendo la testa, sbuffando in modo poco presidenziale e sfuggendo le telecamere con lo sguardo. E in modo plateale (lo aveva fatto in modo meno marcato anche Kerry) ha confuso Saddam Hussein con Osama bin Laden.

Dopo il dibattito tv dedicato all'Iraq e alla politica estera, il presidente Bush e il senatore Kerry sono tornati a parlare di questioni domestiche, in vista della sfida di venerdì a St. Louis: orgomento del dibattito questa volta è la politica interna.

Undici Stati, trentatrè città, più di venti grandi artisti del rock, decine di concerti. Il "Vote For Change Tour" è il tour di una settimana in giro per gli States di alcune delle più grosse rockstar accomunati da un unico scopo: quello di far perdere le elezioni a George W. Bush. Un'idea nata quasi per gioco prima dell'estate, buttata lì in qualche chiacchiera al bar o dietro un palcoscenico e che ha subito entusiasmato gente come Bruce Springsteen, Pearl Jam, Dixie Chicks, R. E. M. e tanti altri.

 

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