Pubblicato su Politica Domani Num 36 - Maggio 2004

Esposizione sul Messico precolombiano
I tesori degli Aztechi
Non solo monili d'oro, in gran parte finiti nei lingotti di fusione dei conquistadores spagnoli, ma il racconto di una civiltà della cui scomparsa siamo responsabili

di Armando Capannolo

La prima immagine che viene in mente è un campo di saggina, in mezzo al quale si erge un "Tenochtli" (fico d'india) su cui signoreggia, appollaiata nel suo nido ricoperto di fini piume variopinte, un'aquila. Secondo la leggenda fu questo il luogo preciso in cui, per volontà dei loro dei, i Tenochca, detti anche Mexica, arrestarono la loro lunga marcia per fondare una nuova città, Tenochtitlàn, sulle cui rovine gli Spagnoli edificheranno Città del Messico. Era il 1325 (o giù di lì, infatti a riguardo non c'è ancora unanimità tra gli storici) e un solo secolo sarebbe bastato a questo popolo - più noto con il nome di Aztechi, da Aztlàn, leggendario luogo di provenienza - per estendere il proprio potere fino a costituire un impero vastissimo; ancora nel pieno del suo splendore quando l'arrivo nel 1519 del Marchese Del Valle, il conquistador Fernando Cortés, lo avrebbe bruscamente spazzato via. Inizio e fine di una storia gloriosa, ripercorsa con dovizia di particolari dalla mostra allestita a Palazzo Ruspoli in Via del Corso a Roma (fino al 18 luglio). Impossibile raccontare in poche righe la ricchezza e l'impressionante varietà degli oggetti esposti. Nonostante quella di presentare una civiltà tanto complessa in una sola esposizione possa sembrare un'impresa disperata, questa mostra sembra aver centrato l'obiettivo.

Un'ampia prima parte è dedicata alla civiltà tolteca, egemone nel Messico centrale nei secoli precedenti l'arrivo degli Aztechi. Dai reperti, per lo più scultorei, rimasti di questa cultura è possibile intuire il filo rosso che collega gli Aztechi (che infatti vollero considerarsi gli eredi della civiltà tolteca) alla tradizione di Teotihuacàn, città fulcro del mondo tolteca e primo vero centro urbanistico del Mesoamerica, che nulla aveva da invidiare - come emerge dalla ricostruzione su stampa che viene esposta - alle contemporanee città europee.
Seguono numerosissimi reperti appartenenti alla cultura azteca vera e propria, risalenti per la maggior parte agli anni intorno al 1500. Spiccano le statue degli dei del ricchissimo Pantheon Mexica, identificabili in base ad una precisa iconografia (una gonna fatta di serpenti intrecciati caratterizza la dea della terra; una maschera a forma di becco di uccello il dio del vento che, attraverso il becco, soffiava generando le correnti portatrici di piogge, necessarie per la sopravvivenza del popolo azteco - e non a caso una delle divinità più rappresentate è proprio Tlaloc, il dio della pioggia, riconoscibile per la dentatura curva. Seguono altre divinità non meno importanti: dalla dea delle messi, adornata con collane di pannocchie - il mais era il mezzo di sostentamento più diffuso -, ad altri numi ricoperti di mani e cuori umani, appartenenti alle vittime sacrificate sugli altari. Non mancano esempi della sviluppatissima arte degli orafi, per la maggior parte andata perduta: gli Spagnoli pensarono bene di fondere il tutto per trasportare più comodamente l'oro in Spagna. E poi piatti, pipe a forma di pappagallo (il tabacco, mescolato ad altre sostanze, era usato soprattutto durante i riti religiosi), pugnali per i sacrifici, maschere ricoperte di mosaici policromi (molto usati il turchese e un materiale rosso ricavato da una particolare specie di conchiglia), vasi dipinti o a forma di divinità, incensieri finemente decorati, enormi bracieri anch'essi con sembianze divine, ed altri oggetti che attestano una grande precisione descrittiva, come zucche, locuste, persino enormi pulci (abbondanti nell'ambiente lacustre sul quale era costruita Tenochtitlàn), aquile (uccello legato al mito della fondazione della città), serpenti simboleggianti il dio Quetzalcòatl, conigli - alla cui simbologia erano connesse instabilità, follia, ubriachezza, depressione, lussuria -, ed infine cani, cui era attribuita la capacità di scendere nell'oltretomba.
È presente, inoltre, una colossale ricostruzione del Templo Mayor di Tenochtitlàn, enorme piramide a gradoni sormontata da due templi dedicati alle due divinità principali, il dio del Sole e della guerra e il dio della pioggia, distrutto dagli Spagnoli per edificare al suo posto una cattedrale cristiana.
Dal materiale esposto è possibile dedurre anche la struttura sociale vigente tra gli Aztechi: una nettissima separazione tra nobili e plebei, che coinvolgeva naturalmente anche abitudini e costumi quotidiani: gli uomini del popolo sono rappresentati sempre seminudi, in quanto soltanto ai nobili era concesso indossare gioielli e calzari, ma quasi mai nudi del tutto: sembra infatti che gli Aztechi nutrissero nei confronti del sesso un forte senso del pudore.
L'itinerario della mostra è scandito da utili schede informative, che raccontano anche dell'impatto dei conquistadores con questa magnifica cultura, e della reazione degli indigeni di fronte all'arrivo degli europei: è noto infatti come il re Moctezuma scambiò Cortés per il dio Quetzalcoàtl, del quale in effetti si attendeva il ritorno (proprio da est!) in quell'anno, l'ultimo anno del secolo (un secolo azteco durava 52 anni, allo scoccare dei quali, durante gli ultimi cinque giorni ritenuti nefasti, si attendeva ogni volta la fine del mondo, oppure un totale rinnovamento inaugurato appunto dal ritorno di Quetzalcoàtl). L'accoglienza riservata agli europei fu dunque più che benevola, e davvero essi dovettero sembrare agli Aztechi dei semidei mentre avanzavano a cavallo, animale sconosciuto per gli americani, che scambiavano cavallo e cavaliere per un'unica creatura sovrannaturale.
Quanto poi gli Spagnoli seppero approfittare di questa situazione è storia nota.
Una poesia azteca ci restituisce la disperazione degli indigeni di fronte al tramonto del loro mondo: "E tutto questo successe a noi. Lo vivemmo, assistemmo meravigliati: da questa deplorevole e triste sorte fummo addolorati. Sulle strade giacciono dardi infranti, le capigliature sparse. Scoperchiate sono le case, arrossate le loro mura. (…) Rosse sono le acque, sembrano tinte, e quando le beviamo, ci sembra di bere acqua di salnitro. Picchiavamo, allora, sui muri, e la nostra eredità era una rete di buchi (…) Oro, giada, ricchi mantelli, piume di quetzàl, tutto quel che è prezioso, fu considerato nulla…"
Emblematica la chiusura della mostra, una grande croce, simbolo dell'imposizione violenta di una cultura e una religione "altre", che in nome del "fardello dell'uomo bianco" rimpiazzarono una civiltà millenaria.

 

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Num 36 Maggio 2004 | politicadomani.it