Pubblicato su Politica Domani Num 35 - Aprile 2004

Riforma del mercato del lavoro
Legge Biagi
Intervista al prof. Franco Liso

di Fabio Antonilli

È stato varato il testo definitivo della cosiddetta Legge Biagi, dal nome del professore di diritto del lavoro ucciso dalle BR, collaboratore del ministro.
Abbiamo intervistato sulla legge Biagi il prof. Franco Liso, ordinario di Diritto del Lavoro presso la Facoltà di Scienze Politiche, Università "la Sapienza" di Roma.

Cosa pensa della legge Biagi di riforma del mercato del lavoro?
È una legge molto complessa della quale ci sono molti aspetti da valutare. Innanzitutto la redazione tecnica, che a mio giudizio è pessima: 86 articoli che creano anche grossi problemi interpretativi, non si era mai vista una legge così! Prima, però, c'è da sperare che l'autonomia collettiva riesca ad intervenire in modo da chiarire le molte incertezze che la legge presenta. Ci sono, infatti, molti istituti che non si capisce come siano disciplinati, come, per esempio, il lavoro intermittente ed il lavoro ripartito, in questi casi gli accordi collettivi potrebbero definirli.

Quali sono i punti della riforma che più clamorosamente creano precarietà?
I lavoratori vengono danneggiati, come prima cosa, dalla filosofia che è sottesa a questa legge la quale assume che questi, da soli, possano convenire con il datore determinati aspetti contrattuali. Insomma si promuove maggiormente la contrattazione individuale anziché quella collettiva, percorso dal quale il più danneggiato risulterà essere il lavoratore che, invece, dalla contrattazione collettiva avrebbe potuto trarre maggiori vantaggi. Ma anche su un altro versante c'è un indebolimento della posizione del lavoratore: riguarda proprio l'autonomia collettiva, che dovrebbe avere un più grosso potere. Non essendo previsto che questa intervenga necessariamente su determinati aspetti, la legge prevede che, in questi casi, a sopperire al vuoto intervenga il ministro in maniera unilaterale.

Anche altre leggi prevedono che, nel caso in cui non intervenga la contrattazione collettiva, sarà un atto ministeriale a definire gli aspetti non risolti. Qui la novità dov'è?
Certo, anche la legge Treu lo prevedeva, con la sola differenza che ora se ne fa un utilizzo sistematico, per cui indebolendo la contrattazione collettiva non si fa altro che indebolire indirettamente la posizione del lavoratore. Questo accade, per esempio, quando si dice che il lavoro intermittente potrà svolgersi solo in determinate situazioni previste dall'autonomia collettiva e che, se l'autonomia collettiva non le prevede, ci pensa il ministro con proprio atto.

Sembrerebbe che la legge tragga forza dallo scontro sociale e, quindi, dalla crisi delle relazioni industriali.
Indubbiamente, e non solo. Si punta anche sul clima di accordi separati che questo governo il più delle volte sembra voler fomentare, più che esorcizzare. Inoltre la legge contiene una nuova formula nel momento in cui si selezionano i soggetti collettivi abilitati a fare determinati accordi: la formula tradizionale parlava di contratti stipulati "dai" sindacati comparativamente più rappresentativi, ora è stata introdotta la formula "da" i sindacati comparativamente più rappresentativi.

Quale intento si cela dietro questo cambio di preposizione?
La norma in questo caso evoca chiaramente la possibilità di fare un accordo separato, e quindi non invita i sindacati ad una necessaria azione comune, piuttosto "lega le mani" alla CGIL. Il governo stesso ha detto che proprio questa era l'intenzione della nuova formula. Dal punto di vista strettamente tecnico le formulazioni legislative precedenti non richiedevano che ci fosse necessariamente la firma della CGIL. Se c'era un contratto siglato solo da CISL e UIL certamente poteva essere preso come valido. Ma il fatto clamoroso è che la legge getta benzina sul fuoco già rovente delle relazioni industriali, dove sono frequenti gli accordi separati. Speriamo che il cambio di presidenza a Confindustria - mi riferisco alla nomina di Montezemolo - porti un clima diverso nelle relazioni industriali.

La legge introduce nuove tipologie contrattuali, da più parti definite come "ad alta precarizzazione". Una di queste è il contratto a chiamata che prevede un'indennità di disponibilità che è "corrisposta al lavoratore per i periodi nei quali il lavoratore stesso garantisce la disponibilità al datore in attesa di utilizzazione" (articolo 36).
Dal mio punto di vista non è il contratto in sé per sé a creare precarietà. Faccio una premessa: secondo me è una superfetazione la previsione di questo lavoro a chiamata. Se è vero che nella stessa legge è stato elasticizzato il part-time non c'era la necessità di creare un contratto intermittente. Un part-time che prevedesse clausole di elasticità relative alla quantità di lavoro, da chiedere al lavoratore, poteva anche andare bene. Infatti, se io-imprenditore ho dei picchi di lavoro nel week-end potrei benissimo applicare un part-time verticale. Per quanto riguarda l'indennità di disponibilità, in questo contesto è doverosa. Ma la legge dice una cosa improponibile dal punto di vista grammaticale quando detta che nel caso in cui venga prevista una disponibilità del lavoratore, relativa a determinati periodi prestabiliti, ad esempio nei giorni festivi, l'indennità di disponibilità viene data solo se il lavoratore viene chiamato! C'è un obbligo da parte del lavoratore di stare a disposizione che, però, trova un corrispettivo economico solo se viene effettivamente chiamato dal datore. Ma che significa? Se il lavoratore viene chiamato ha diritto alla retribuzione, non all'indennità!

Oltre alle incongruenze, sembra anche presentare dei profili di incostituzionalità.
Esatto. Ci sono delle affermazioni che non stanno in piedi perché urtano contro i principi costituzionali di solidarietà e uguaglianza. Ad esempio si dice che "il lavoratore durante i periodi in cui percepisce l'indennità di disponibilità non gode di alcun diritto" (articolo 38, II e III comma, ndr), è assurdo! In particolar modo contro questa tipologia di contratto di lavoro interverrà sicuramente la Corte Costituzionale.

Come nasce l'idea di un contratto di lavoro che si basa su una prestazione che c'è solo quando il lavoratore è chiamato?
Dietro al lavoro intermittente c'è una storia particolare, di un accordo fatto anche con la consulenza di Marco Biagi alla Zanussi, col quale si prevedeva un part-time ad espansione programmata, cioè un contratto che garantiva un minimo di ore e dava all'azienda la possibilità di incrementare queste ore, riconoscendo, però, al lavoratore la possibilità di non accettare questo incremento se impegnato in altri rapporti part-time, o in un corso di formazione lavoro, esigenze familiari, ecc. Insomma uno schema che cercava di bilanciare da una parte l'interesse dell'azienda ad una flessibilità nell'uso delle persone e dall'altra l'interesse dei dipendenti a stabilizzare la loro posizione, grazie anche a ore di formazione. Questo accordo aziendale venne, però, bocciato dai lavoratori con un referendum organizzato dalla FIOM. Fu accusato di "creare precarietà", ma in realtà non mirava a precarizzare: era, infatti, una situazione dove oggettivamente c'era un lavoro che oscillava perché relativo a picchi di produzione che vanno soddisfatti se non si vuole perdere competitività.

Insomma il referendum aziendale lo bocciò e ora ce lo ritroviamo nella legge.
Esatto. Avendo elasticizzato il part-time non ce n'era bisogno. Evidentemente c'è, da parte del legislatore, uno sfoggio di muscolatura, come dice anche Gino Giugni .

Cosa pensa del contratto ripartito, per cui due lavoratori si dividono lo stesso lavoro in base al vincolo di solidarietà?
Anche questo è poco chiaro. Non si capisce se ci sia veramente un regime di solidarietà, o meno, perché c'è l'articolo 41 che al II comma dice che "fermo restando il vincolo di solidarietà tra i due lavoratori, e fatta salva una diversa intesa tra le parti contraenti, ogni lavoratore resta personalmente e direttamente responsabile dell'adempimento dell'intera obbligazione lavorativa": è grammaticalmente scorretta ed equivoca. Inoltre la legge dice che "i lavoratori hanno la facoltà di determinare discrezionalmente e in qualsiasi momento sostituzioni tra di loro, (…) nel qual caso il rischio della impossibilità della prestazione per fatti attinenti a uno dei coobbligati è posta in capo all'altro obbligato" (articolo 41, III comma, ndr): questo significa che il rischio della impossibilità sopravvenuta verrebbe totalmente riversato sui lavoratori, quindi avremmo una situazione in cui il lavoratore sta sempre sulla corda perché se l'altro non può, deve andare lui. Questa ipotesi è in contrasto con quanto è stato detto dalla Corte Costituzionale, e cioè che i lavoratori devono avere certezza in ordine agli spazi di tempo che possono utilizzare, perché devono poter essere in grado di procurarsi un reddito sufficiente. Comunque, lo ripeto, è qualcosa di inutilizzabile. Nelle aziende non sanno che farsene di norme scritte così. A proposito ho letto affermazioni fatte da gestori del personale che ritengono questa normativa "non di immediata applicazione". Bisognerebbe prima capire bene di cosa si tratta.

A parlarne bene, quindi, è rimasto solo il governo?
Certo il governo ha fatto un grosso battage pubblicitario. Ma questa disciplina è un semilavorato. Potrebbe avere un effetto benefico solo se riuscisse a ricomporre la contrattazione collettiva affinché questa negozi nuovi schemi di organizzazione della prestazione lavorativa; solo allora avremmo un fatto positivo.

Sembra che questa legge voglia determinare tutti i possibili aspetti contrattuali.
Sì, c'è questa esigenza di fare dello show. Abbiamo la spettacolo anche sul piano normativo! Mentre sarebbe stato più saggio affidarsi all'autonomia collettiva.

Cosa pensa del contratto a progetto che riguarda i lavoratori autonomi?
La legge non ci dice con chiarezza cosa si intende per progetto, perciò va dedotto dal contratto. I lavoratori autonomi, a questo punto, corrono un grande rischio: se il magistrato dovesse ritenere che quel progetto non è conforme alle ipotesi stabilite dalla legge, i lavoratori a progetto, che sono autonomi appunto, rischiano di essere considerati come subordinati. La legge dice che un contratto di lavoro coordinato e continuativo senza progetto configura un lavoro subordinato.

Marco Biagi è stato l'ideatore di questa legge, ma era proprio così che la voleva?
Questo non si può dire. Però, a mio parere, una delle cose più inconvenienti che si possano fare è di legare questa riforma al nome di una persona che non è più tra noi. Da un lato può essere un omaggio, ma dall'altro è facilmente soggetta a strumentalizzazioni. Sembra si voglia dire: non ne parlate male sennò parlate male di una persona che è scomparsa. Un conto è scrivere dei canovacci, un altro è fare un decreto legislativo.

Tutti i partiti di governo nel difendere la legge tirano sempre fuori il fatto che Biagi era un riformista, di area Ulivo, e che aveva collaborato con i governi precedenti. Come dire: se ci sono degli errori, guardate che la responsabilità è anche vostra.
Questo è vero. Biagi era socialista ed era stato collaboratore, come me tra l'altro, dell'ex ministro del lavoro Tiziano Treu. Alcune cose aveva cominciato ad elaborarle con lui ed era sinceramente convinto sulla necessità del dialogo tra le parti sociali, però non so quanto di questi contenuti siano imputabili precisamente a lui. Certamente, con quei governi la legge sarebbe stata fatta con una maggiore sensibilità verso il rapporto con l'autonomia collettiva.

ì Gino Giugni è professore di Diritto del Lavoro presso la facoltà di Economia e Commercio dell'Università degli Stufi di Roma "la Sapienza". È, inoltre, direttore responsabile del "Giornale di Diritto del Lavoro e delle Relazioni Industriali" e di "Lavoro e Informazione".
Ha conseguito la laurea Honoris Causa presso le Università di Nanterre, Buenos Aires e Siviglia.
È presidente dell'Associazione Italiana del Diritto del Lavoro e dell'Accademia Europea del Diritto del Lavoro.

 

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