Pubblicato su Politica Domani Num 35 - Aprile 2004

Hanno detto
Sul film di Mel Gibson, Roberto Parmeggiani, di Famiglia Cristiana, ha intervistato il Rabbino Laras e il teologo Ravasi.

 

"Il rabbino capo di Milano Giuseppe Laras e il biblista monsignor Gianfranco Ravasi si affrettano fuori dalla saletta in cui hanno assistito, invitati da Famiglia Cristiana, a un'anteprima di La Passione di Cristo di Mel Gibson."

Ecco alcuni frammenti dell'intervista.

Il Rabbino Laras
"Laras, rabbino capo di Milano da 24 anni, entra nel vivo delle polemiche suscitate dal presunto antisemitismo del film di Gibson, ma le smorza, sinceramente preoccupato del fatto che tanto clamore possa soffocare il dialogo."
"Mi ha colpito tutta questa violenza, una violenza incredibile, inaudita, forse anche improbabile. Ma, al di là del giudizio di merito, mi preoccupa l'impatto che il film può avere sulle persone comuni: questa visione delle sofferenze e della morte di Gesù può alimentare sentimenti antiebraici, rinfocolare tensioni e stereotipi, soprattutto nelle persone semplici. Come accade nel dialogo tra ebrei e cristiani: quando esso si svolge a livello alto va tutto bene, ma quando deve calare in basso trova difficoltà, resistenze".
"Mel Gibson non è un teologo, è un regista. Consiglierei di ascoltare il Papa, non lui. Il film è giocato sulla passione, cioè sull'aspetto della sofferenza e della morte di Gesù, e trascura il versante della risurrezione [solo tre minuti su oltre due ore]. Se si voleva lanciare un messaggio, poteva essere un messaggio di vita e speranza. Credo che gli effetti potenziali di questo film siano antitetici al Concilio Vaticano II e al documento conciliare Nostra aetate: è un passo indietro rispetto a queste tappe che ci hanno aiutato ad andare avanti, a eliminare molte suggestioni. Noi dobbiamo impegnarci di più, spendere di più sul dialogo, nel senso di non lasciarci dividere, di incontrarci di più per riprendere il cammino insieme. Io non mi sento di dire alla Chiesa che cosa deve fare, ma se si indicassero, da parte cristiana autorevole, i rischi che possono derivare dal film, questo potrebbe aiutare a evitare altre fratture. Con alcune dichiarazioni che ho letto si rischia di compromettere il cammino che faticosamente si è fatto. E non credo che ne valga la pena".
"Il film trasmette un'idea opprimente del dolore. Sembra che ci sia compiacimento nel sottolineare il piacere sadico dei persecutori romani nell'infliggere la sofferenza. Ma noi dobbiamo sperare al di là di quello che suggerisce il film. È un'occasione mancata, Gibson poteva farci vedere un po' più di vita dopo la morte e la sofferenza. Ma non bisogna dargli troppa importanza, è solo un film".

Il teologo Ravasi
"Il film è l'occasione per porsi almeno tre questioni: quella storico-critica, quella teologica e quella artistica. La prima riguarda gli eventi in quanto tali. Molti oggi chiedono di ricostruire ciò che è accaduto in quelle ore. Noi non dobbiamo rispondere dicendo: "L'avete visto nel film, quella è la verità". Dobbiamo tornare a studiare i Vangeli, perché c'è la tentazione di identificare il film con il testo evangelico.
Poi c'è il percorso teologico. Gibson non è un teologo. Il suo approccio è piuttosto ingenuo e la sua rilettura dei Vangeli è costruita secondo un orientamento tradizionale. [...] È una lettura della passione e della morte di Gesù [...] in cui si pone tutto l'accento sull'aspetto sacrificale. Questo è un elemento valido della teologia cattolica, ma non l'elemento esclusivo, perché la teologia riconosce che la morte di Cristo è, in pratica, la scelta estrema di Dio di condividere la natura umana. Soffrire e morire sono categorie fondamentali dell'uomo, ma la partecipazione di Dio al dolore umano è un'esperienza d'amore, una scelta compiuta per assumere su di sé la sofferenza allo scopo di trasfigurarla. Questo film, invece, fa vedere solo un atto sacrificale drammatico, eroico, tragico, ma si nota poco la dimensione dell'amore: il progetto di Dio non è qualcosa di fatalistico per cui Gesù, schiacciato, è costretto ad andare avanti. I Vangeli, di cui non si rimpiange mai abbastanza la sobrietà, ci aiutano a capire questa dimensione. Lo scopo di Gesù non è diventare uomo per morire come un uomo, ma di far sì che la realtà umana, anche il dolore, sia trasfigurata".
"Gibson ha scelto di parlare soltanto della passione. Ma anche dal punto di vista cristiano, non si può arrivare solo fino alla crocifissione e alla tomba, e non parlare della Pasqua. Sono realtà intrecciate e l'ultima spiega le precedenti, permette di vedere che questo dramma non sfocia nella disperazione.
A livello artistico ci sono elementi positivi: l'ammiccare alla storia dell'arte e il gioco degli sguardi, bellissimo. Per questo dobbiamo cercare di non avvitarci attorno alla polemica.
Il rischio che il film possa alimentare sentimenti antiebraici esiste. C'è il rischio che la gente comune prenda su di sé questo supplizio, lo carichi e dica alla fine: "Maledetti quelli che hanno portato a questo", dimenticando che Nostra aetate dice realisticamente che il Sinedrio c'entra, ma che non tutti gli ebrei volevano uccidere Gesù. Trovo che l'eccesso narrativo della violenza non giovi al film. Si doveva cercare di dire, alla fine, una parola di speranza, che nei Vangeli è l'ultima parola.
Siamo in una società mediatica. Eventi come questo film diventano quasi celebrazioni, e purtroppo possono avere un'eco maggiore dei discorsi del Papa. Però, invece di condannarlo o glorificarlo, partiamo dal film per tornare a incidere sulla conoscenza dei Vangeli da parte dei cristiani. È una grande opportunità per parlare di Gesù, ma stiamo attenti a non appiattirci sulla lettura che ne dà Gibson".

[Fonte: Famiglia Cristiana]

 

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