Pubblicato su Politica Domani Num 34 - Marzo 2004

La Grazia
Quando è lo Stato a perdonare
Alcune considerazioni sulle polemiche attorno alla possibile grazia concessa a Sofri

di Roberto Palladino

"Io ti perdono". La frase più caritatevole pronunciata dalla bocca di un ufficiale delle SS di fronte agli occhi di un giovane ebreo terrorizzato, è senz'altro una delle scene più angoscianti di Schindler's List. Il tenente nazista apprezza il momento del perdono come forma estrema di potere, di possesso, di essere al di sopra di tutto e di tutti. Un godimento malato ma, almeno per una volta, più soddisfacente rispetto all'alienante catena di montaggio della morte dei campi di sterminio. Il perdono e la pietà. Parole che trovano gli esempi massimi nei martiri del cristianesimo. In Gesù, che ormai moribondo sulla croce, perdona i propri aguzzini, perché non sanno quello che stanno facendo. In tempi più recenti è l'urlo della vedova Schifani che, davanti alla bara con i resti del marito trucidato dalla mafia insieme al giudice Falcone, urla ai carnefici: "io vi perdono, ma dovete chiedermelo in ginocchio". Momenti, della nostra storia, che come ogni perdono suscitano nella gente rispetto e ammirazione. Ma perché quando è lo Stato a voler perdonare, si scatenano dibattiti e infuriano polemiche? Negli Stati Uniti, dove vige la pena di morte, dare la grazia può voler dire salvare una vita. Eppure i provvedimenti di grazia nei confronti di un condannato alla pena capitale, sono rari. Dare la grazia in America viene vissuto come un momento di debolezza, di incertezza, in una terra che storicamente quando prende una scelta "pubblica" difficilmente torna indietro. In Italia la legge sulla grazia prevede che sia solo il Capo dello Stato, su parere del Ministro della Giustizia, a poter annullare una condanna definitiva. I casi di grazia concessi sono normalmente riconducibili a detenuti con situazioni fisiche o famigliari particolarmente disagiate e condannati per reati meno gravi. Ma anche alcuni assassini sono stati graziati, non fra le polemiche. Cos'è più importante quindi: fare giustizia, dando un po' di sollievo ai parenti delle vittime, o dare una seconda possibilità? In verità le grazie concesse sono talmente poche che non c'è pericolo di rimettere in discussione la certezza del diritto, assai più danneggiata dalle lungaggini della giustizia. Eppure l'ipotesi che Adriano Sofri venga graziato per l'omicidio del Commissario Calabresi, fa discutere l'opinione pubblica molto più del fatto che un processo penale possa durare più di dieci anni. Questo perché l'assassino, quando uccide, commette secondo la legge un delitto "erga omnes", ossia contro tutti. Ogni cittadino ha quindi il diritto/dovere di sentirsi danneggiato da chi ha ucciso. Quando c'è una condanna, è come se anche noi, come se ogni singolo cittadino, mandasse in prigione una persona. La grazia, specie quando crea polemiche e divide, rappresenta il momento in cui la giustizia smette di essere una questione "tecnica", della quale si occupano persone, i magistrati, che hanno una preparazione apposita, ma diventa una questione politica. Il carcere ha, o meglio dovrebbe avere, una funzione rieducativa e l'abolizione di fatto dell'ergastolo, fa sì che qualsiasi pena comporti sempre l'obiettivo del reinserimento nella società. Scegliere se valga la pena accelerare questo ritorno al mondo si può e si deve basare sul "buon senso" di una figura istituzionale, ma pur sempre politica, qual è il Capo dello Stato che, lo ricordiamo, è anche il Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Difficile vedere alternative. Questa è la grazia, un procedimento difficile che ogni volta che viene applicato mette alla prova l'intero meccanismo su cui si fonda la nostra società, quello del delegare ad un organismo superiore la nostra stessa libertà. La vedova Calabresi, potrà in cuor suo, non perdonare mai una persona, Sofri, che secondo la magistratura ha ucciso suo marito ma, ciononostante, lo Stato potrà concedere la grazia a Sofri. Mettere in discussione questo vorrebbe dire stravolgere, con rischi difficilmente immaginabili, la convivenza e le radici stesse del nostro Stato.

 

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