Pubblicato su Politica Domani Num 34 - Marzo 2004

L'intervista
Crisi dell'acciaio. Quale ruolo per il Governo?
Risponde il prof. Giorgio Rodano

di Fabio Antonilli

Roma. Nel 2000 l'IRI ha chiuso i battenti. Perché queste scelta? A fronte di tante imprese che rischiano di chiudere, cosa possono fare il Governo e le altri istituzioni pubbliche? Se il vecchio sistema di protezione statale non è più adeguato, non sarebbe comunque necessario un nuovo sistema di tutela dei lavoratori che si ispiri, magari, ad una nuova scala di principi?
A queste domande ha risposto per noi il prof Giorgio Rodano, docente di Economia Politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Roma..

Prendendo spunto dal caso dell'acciaieria di Terni, dove l'allarme chiusura è fortunatamente rientrato, cosa si può fare per evitare situazioni simili?
Le strade percorribili in questo caso sono diverse rispetto al passato. Fino a qualche anno fa il problema veniva risolto con un intervento pubblico. La storia italiana è piena di casi in cui società in crisi sono state salvate con l'acquisto dell'impresa da parte di un ente pubblico, che poteva essere l'IRI. Ora queste soluzioni non si adottano più perché, come prima cosa, sono venuti meno questi enti pubblici di gestione. Ma i motivi sono anche altri. Innanzitutto perché costava troppo. Finché il bilancio pubblico poteva permetterselo non c'era nessun problema, oggi invece non abbiamo più margini di questo tipo a causa del debito pubblico che dal 1980 al 1992 è raddoppiato, dal 60% al 120% del PIL. Adesso è in calo proprio perché non ci permettiamo più una serie di spese e su questo ci siamo impegnati a livello europeo.

In base a quale principio l'Italia, come gli altri Paesi membri, si sono vincolati a non spendere?
Tutto parte da questo: quando i Paesi mettono insieme una moneta sorge la necessità di una disciplina nella finanza pubblica perché altrimenti sarebbe facile per qualunque Paese "scaricare" le sue difficoltà sugli altri, e quindi sulla politica monetaria comune. L'Italia, rispetto a gli altri Paesi, è partita con un debito molto elevato per cui i nostri vincoli sono oggettivamente più stringenti.

Alla luce degli obblighi presi con l'Unione Europea, cosa è possibile fare per difendere il reddito dei lavoratori?
Ci sono due modi per difendere il reddito dei lavoratori e anche il lavoro: un modo è sicuramente difendere il posto di lavoro; l'altro è difendere la possibilità di avere un lavoro. Ad esempio nel Nord Europa, premesso che gli strumenti sono diversi da Paese in Paese, è molto facile perdere il lavoro ma è molto più facile ritrovarlo perché gli Stati si impegnano a condurre le cosiddette politiche attive del lavoro, aiutare cioè il lavoratore a trovare un'altra occupazione. Poi ci sono i Paesi mediterranei come Italia, Spagna, Portogallo e Grecia che tendono a difendere il posto di lavoro.

Di conseguenza una volta che lo si è perso è più difficile ritrovarlo.
Esattamente. E proprio per questo l'idea dell'Europa è quella di passare verso modelli di tipo nordico da applicare quindi anche da noi. Solo che per noi è un dramma perché non abbiamo strumenti che permettono di intervenire come si interverrebbe in Svezia per esempio, o in Germania o in Olanda.

Cosa è possibile fare in casi come Terni e Cornigliano, tanto per citare solo gli ultimi?
Soluzioni di un certo interesse che evitano licenziamenti collettivi, consecutivi alla chiusura delle fabbriche, sono in alcuni casi state sperimentate ma purtroppo solo su imprese più piccole. Si tratta di situazioni in cui il salvataggio è avvenuto attraverso organizzazioni cooperative dei lavoratori grazie all'intermediazione di una società (CFI, Compagnia Finanziaria Industriale), che si occupa proprio di aiutare i lavoratori ad organizzarsi in cooperative con finanziamenti, in parte anche pubblici, e una gestione comune per consentire loro di superare la fase di crisi. Spesso queste soluzioni hanno avuto successo e le società interessate sono rientrate sul mercato e oggi fanno profitti. Come premesso, questo è avvenuto su scala più piccola. Ma ciò che ritengo sia interessante osservare è il problema dell'acciaio, questo è un prodotto maturo.

Maturo, in che senso?
Un prodotto è maturo quando la quantità del bene che viene prodotta tende ad arrivare ad un limite oltre il quale non cresce più, o addirittura diminuisce. Le automobili e la televisione, tranne in alcuni casi, sono da considerarsi prodotti maturi e sono prodotti, come anche il frigorifero, che usano l'acciaio. L'acciaio, negli anni '50, costituiva il centro dei sistemi economici per cui la siderurgia era un settore di punta, tanto che si usava la produzione di acciaio come indicatore dello stato dell'economia. Se la produzione aumentava voleva dire che l'economia stava bene, e viceversa. Oggi non è più così: i prodotti che tirano l'economia sono diversi e non hanno più bisogno di acciaio come prima. Basti pensare all'elettronica, ai computer, ma anche alla moda e al turismo.

È quindi un problema che va al di là dei singoli casi, Terni, l'Ilva di Genova o l'Ansaldo. È un problema di politica industriale?
Certo, è il problema della grande siderurgia italiana, che però si sarebbe dovuto gestire con più gradualità creando alternative che avrebbero potuto consentire un trapasso morbido. Oggi ci si trova a gestire una situazione che si è cercato di rimandare nel tempo, ma, come tutti i nodi, anch'essa è venuta al pettine. Se il prodotto "acciaio" ha un futuro non si avranno difficoltà a trovare acquirenti. Se invece non si trovano investitori può darsi che vi siano difetti di informazione, ma, soprattutto, è un segnale che questo prodotto non ha futuro.

 

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Num 34 Marzo 2004 | politicadomani.it