Pubblicato su Politica Domani Num 34 - Marzo 2004

Cina e carbon coke

di Fabio Antonilli

Problema di molte industrie siderurgiche, oggi, è il carbon coke, il combustibile necessario per la produzione di acciaio liquido, che non sempre è semplice reperire sul mercato, soprattutto di buona qualità e a buon prezzo, e non tutti gli impianti sono in grado di produrlo in proprio.
La "crisi" del coke nasce qualche tempo fa in seguito alla decisione della Cina, grande produttore, di decurtarne le esportazioni per privilegiare i consumi interni: l'economia cinese, infatti, vive una fase di crescita e necessita, come l'Europa nel secondo dopoguerra, di ingenti quantitativi di acciaio, 45-50 milioni di tonnellate in più rispetto al fabbisogno normale che è di 180 milioni. Più precisamente le esportazioni sono state tagliate di circa il 70%.
Il forte apprezzamento del bene ha causato da una parte la diminuzione della disponibilità dello stesso sul mercato e dall'altra l'aumento del prezzo, dai 90 dollari a tonnellata di qualche mese fa ai 340 attuali.
E sull'economia italiana si fa sentire il peso di questa decisione cinese visto che la nostra produzione siderurgica, di 26,3 milioni di tonnellate l'anno, è al secondo posto in Europa, dopo la Germania e che il settore, sul nostro territorio, conta 160-170 aziende.
In Italia non tutti gli impianti sono in grado di produrre il coke in misura sufficiente. Costituisce una rara eccezione la Lucchini di Piombino, sulla quale sono stati fatti investimenti decisivi in tal senso. Stessa cosa però non si può dire degli stabilimenti di Cornigliano (Genova) e Taranto, entrambi del gruppo Riva, per le quali si fa sempre più imponente il problema del coke, la "benzina" che fa marciare gli altiforni trasformando il minerale in ghisa liquida. A Taranto le sei batterie della cokeria, di cui quattro sono sotto sequestro dal luglio 2002 perché altamente inquinanti, non riescono ad alimentare i tre altiforni attualmente in funzione. E il problema si fa ancor più grave se si considera che l'impianto ligure dipende da quello tarantino, nel senso che quest'ultimo sforna le bramme (pesanti lastre d'acciaio) necessarie a quello di Cornigliano per mantenere le lavorazioni nell'area a freddo. Insomma una catena di montaggio a livello "macro" che non può permettersi di essere interrotta per le forti conseguenze che può avere sull'azienda e le sue strategie ma soprattutto sulla stabilità di migliaia di posti di lavoro, ormai sempre più a rischio.
Nei "palazzi del potere" qualcosa si è mosso per cercare di porre delle pezze a questa difficile situazione che, se oggi è di difficile gestione, domani potrà essere addirittura irreversibile. È del mese scorso la notizia che il vice-ministro dell'Attività produttive, Adolfo Urso, ha chiesto al Commissario UE, Pascal Lamy, di inviare a Pechino una commissione per riaprire la borsa del coke.

 

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