Pubblicato su Politica Domani Num 33 - Febbraio 2004

Caso Parmalat
Finanze allegre
La crisi dell'azienda italiana frutto di un malcostume ostentato

di Maria Mezzina

La domanda qualcuno se l'era posta all'epoca della crisi della Fiat, quando oltre 8000 lavoratori erano stati messi in pre-licenziamento e il titolo della casa torinese era sceso da 27 a 3 euro. Doveva lo Stato intervenire per arginare la falla che si era prodotta? Iniziò allora timido un dibattito, subito però interrotto. Il Governo non era d'accordo. Il titolo crollò rovinosamente e i lavoratori in gran parte andarono a casa. Chi allora vendette il titolo Fiat realizzò, nel migliore dei casi, meno di un quinto di quanto aveva investito, chi decise di lasciarlo nel cassetto lo fece, più che altro, per rispetto a un pezzo di storia d'Italia. Poi morì l'Avvocato e con lui se ne andò quel pezzo di storia.
Poi venne la Cirio e di aiuti di stato non se ne parlò affatto. Un po' per l'esperienza già avuta con la Fiat, ma probabilmente anche per una sorta di pudore. Cirio, Cragnotti e la Lazio, appartengono tutte a quella categoria di merce del "vuoto a perdere", quando la loro funzione è finita - arricchire i soliti furbi e gabbare i soliti gonzi - la fiducia e i risparmi della gente si buttano nella spazzatura. Vero è che, a settembre il governo, interessato, aveva pensato ad un intervento a favore delle società di calcio del campionato maggiore. Scopo: sostenerne le finanze rosso cupo con una sorta di tassa fatta passare per "aiuto allo sport". Alla levata di scudi di protesta, per decenza, non se ne fece nulla (la tassa non era nel programma di governo). Passò invece una sorta di "spalmatura" nel tempo del deficit accumulato dalle società di calcio, sulla cui illegittimità si è espressa a novembre l'UE con i commissari Mario Monti (concorrenza) e Frits Bolkestein (mercato interno).
Ora, con il caso Parmalat e l'altro, appena scoperto, di Finmatica il problema si ripropone.
Il deficit Parmalat è pari ad una robusta manovra finanziaria ma i guai nei quali l'amministrazione "allegra e spregiudicata" dell'azienda ha posto i risparmiatori innanzi tutto, che si sono trovati con il classico pugno di mosche in mano, i fornitori che attendono pagamenti che forse non verranno, i lavoratori che temono la chiusura dell'azienda, la città di Parma che si è sentita a dir poco tradita dai suoi "figli migliori", non sono limitati ai confini di casa. Né la responsabilità di quanto è eccaduto è solo italiana. Alcune fra le maggiori banche creditrici dell'industria lattiera italiana sono americane (Citycorp e Bank of America) e americane sono le società di revisione di conti (quelle che avrebbero dovuto vigilare sulla correttezza dei bilanci) e di rating (quelle che avrebbero dovuto giudicare la bontà del titolo e suonare il campanello di allarme per i mercati).
Il problema è che il mondo della finanza si è profondamente corrotto perché, come ha spiegato molto bene Marco Vitali nel suo libro "America, punto e a capo", controllori e controllati sono spesso gli stessi, le paghe dei CEO (Cheaf Executive Officer) sono lievitate fino al 700%, e perchè si è perduta l'etica della finanza. Qualcosa, quest'ultima, che qui sarebbe troppo lungo spiegare ma che si realizza con l'esercizio di virtù quali la correttezza, la trasparenza, l'imparzialità e l'onestà. Tutte doti un po' demodé.

 

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