Pubblicato su Politica Domani Num 33 - Febbraio 2004

Tunisia: giornalista contro
Ahmed Ziat
(da un'intervista a Nigrizia)

 

Shiem Ben Sédrine, giornalista e cofondatrice del Comitato per le libertà in Tunisia, è un simbolo della lotta per i diritti umani e della libertà d'espressione. Un simbolo poco gradito al regime del presidente Ben Ali. Anche lo scorso 13 gennaio, la polizia di Tunisi ha impedito per due volte alla sua associazione di tenere una conferenza. Candidata lo scorso anno al premio Sakharov, attribuito dal parlamento europeo a personalità che si battono contro le ingiustizie, Sédrine, di recente a Roma per partecipare a un seminario, ci ha parlato del suo paese, del suo confronto con il potere, di giornali e di giornalisti.

Lei è sotto processo in Tunisia. Come ha potuto lasciare il paese?
Sono la prima ad esserne meravigliata, ma fino ad un certo punto. Intanto perché sarebbe illegale privarmi del diritto di spostarmi. E poi qualcosa sta muovendosi, il regime non può continuare a giocare la carta della repressione. Ultimamente la polizia ha disperso gli studenti universitari di Mounastir, semplicemente perché impegnati nell'elezione del consiglio di facoltà. Come dire, qualsiasi azione che abbia una parvenza di democrazia non ottiene che una risposta dal regime: repressione. Poi va segnalato che Kamel el-Taïf, uno dei costruttori del potere di Ben Ali, ha qualificato il regime come mafioso e corrotto.

Eppure la Tunisia gode di una buona immagine in Europa…
Ha dato un'immagine di maggiore stabilità rispetto ad altri paesi dell'area, ma da un paio d'anni a questa parte questa immagine è offuscata da un numero di fatti non certo edificanti. Penso in particolare al caso del giornalista Ben Brik e al suo sciopero della fame che ha avuto larga eco in tutta Europa (Nigrizia, 10/01, 16). Oggi l'occidente non può dire di non essere al corrente, e continuare a tacere e sostenere il regime tunisino.

C'è chi afferma che in materia di diritti umani si applicano due pesi e due misure. In particolare che si chiudono gli occhi quando la repressione riguarda il radicalismo islamico.
Direi che questo comportamento in Tunisia è appartenuto soprattutto ai partiti della sinistra. Al contrario la posizione degli organismi di difesa dei diritti umani è sempre stata chiara: ogni volta che un cittadino è messo sotto inchiesta per le sue opinioni - sostenute senza ricorrere alla violenza - è tutta la democrazia ad essere lesa. Questo atteggiamento chiaro non ci è stato perdonato ed è per questo che nel 1992 sono cominciate le nostre difficoltà.

La Tunisia passa per essere uno dei paesi arabi più avanzati nel rispetto dei diritti della donna. È d'accordo?
Le conquiste giuridiche di un'uguaglianza relativa con gli uomini non sono di ieri. Risalgono al 1956, non hanno nulla a che vedere con l'attuale regime, che però le strumentalizza. Utilizza la donna come un mantello, in modo da farsi passare per democratico. Nei fatti, alla donna è impedita l'espressione, la sua cittadinanza è beffeggiata ogni volta che cerca di esprimersi.

Come vede l'avvenire della democrazia nel suo paese e in generale nel mondo arabo?
Senza una forte dose di ottimismo la mia lotta attuale non avrebbe senso. Spero che una Tunisia libera e democratica sia possibile. La dittatura non è un destino per il mondo arabo. Temo però che l'attuale lotta contro il terrorismo penalizzi i difensori dei diritti umani. I regimi autoritari si fanno passare per campioni della lotta al terrorismo e credono di avere così le mani libere per reprimere ogni forma di dissenso, per tacitare le opposizioni e tutti coloro che non stanno dalla loro parte.

 

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Num 33 Febbraio 2004 | politicadomani.it