Pubblicato su Politica Domani Num 32 - Gennaio 2004

Medioriente
Una residua, ma forte, speranza di pace
Intervista al Prof. Wasim Dahmash

a cura di Fabio Antonilli

Roma - Le guerre in corso in Medio Oriente sono uno dei temi "caldi" di questi ultimi anni. Ci sono divisioni profonde fra israeliani e palestinesi, iracheni e la cosiddetta coalizione anti-terrore. Eppure esistono falchi e colombe un po' ovunque in questi schieramenti perché non tutti, anche se dalla stessa parte, la pensano allo stesso modo. Le divisioni si fanno quindi interne agli schieramenti: estremisti e moderati. Alla fine per la pace contano tanto le rinunce e concessioni dei primi quanto il pragmatismo e la cultura di pace delle seconde. Essere moderati significa assumersi una grande responsabilità, quella di riconoscere il proprio nemico e di instaurare con questo l'unica dialettica utile, quella della pace.
Il Prof. Wasim Dahmash, palestinese, in Italia da 40 anni, insegna Dialettologia Araba all'Università "la Sapienza". Un intellettuale che non risparmia critiche a nessuno, una voce fuori dal coro che crede nella non violenza, e che nutre dentro di sé la speranza che un giorno nella sua terra possa esserci la pace.

Professore, per uno straniero cos'è cambiato in Italia rispetto a quarant'anni fa?
L'Italia era un Paese completamente diverso, così come essere stranieri in Italia costituiva una situazione distinta dall'attuale. Le immigrazioni erano quantitativamente inferiori: chi veniva in Italia, per studio o per lavoro, era una piccola elìte privilegiata. Oggi, invece, c'è una forte immigrazione per lo più illegale, quindi una importazione di manodopera senza diritti e più ricattabile.

Nei suoi primi anni trovò delle difficoltà sul piano culturale?
No, allora non ce n'erano. In riguardo ad oggi, invece, direi di sì.

A cosa si riferisce?
Il mondo è più diviso: il divario tra ricchi e poveri è molto più accentuato e questo provoca delle conseguenze rilevanti sul piano culturale. A mio giudizio, il mondo è diviso su basi ideologiche molto più nettamente di quanto non lo fosse quarant'anni fa. Oggi c'è un'operazione precisa che mira ad emarginare una parte importante dell'umanità, che è il mondo musulmano.

Pensa che queste divisioni siano dovute ai fatti dell'11 settembre, oppure vengono da più lontano?
I processi storici si evolvono gradualmente. L'11 settembre è una data importante. Da quel giorno gli equilibri mondiali hanno subito dei cambiamenti ma le ragioni di tali cambiamenti hanno radici altrove. Mi riferisco all'espansione capitalistica su scala globale: questa ha rivoluzionato lo stile di vita di tutti, basti pensare a fenomeni come le grandi migrazioni o l'urbanizzazione. Sono nate grandi città con milioni di abitanti, dove la maggior parte di questi sono solo una riserva di manodopera per un capitalismo molto aggressivo. Questi sono i cambiamenti reali, dopodiché ci sono dei momenti importanti tra cui l'11 settembre. Ma ritengo che ci siano state delle tappe più significative tra cui la Guerra dei Sei giorni. La Guerra dei Sei giorni ha segnato non solo la vittoria israeliana, ma quella di una ideologia ben precisa, di sopraffazione dei popoli. E la conseguente sconfitta del mondo arabo non come potenza militare, che era inesistente, ma come possibile alternativa alle contrapposizioni ideologiche di allora: si parlava, infatti, di una terza via che era quella del socialismo arabo. Ecco, questa è stata una tappa importante, per il Medio Oriente e non solo. Anche la caduta del Muro di Berlino è una di queste tappe. È, anzi, uno dei fattori determinanti. La prima guerra del golfo non sarebbe stata possibile se ci fosse stata ancora l'Unione Sovietica, infatti l'occupazione del Kuwait è avvenuta dopo la caduta del Muro di Berlino. E con questa mossa Saddam Hussein consentì agli Stati Uniti di occupare militarmente, e quindi controllare, tutta la Penisola Arabica. Un'occupazione silenziosa alla quale nessuno si è opposto.

È corretta, secondo lei, la definizione di "neo-colonialismo" americano?
È una definizione accettabile. Non si può certo parlare di partnership tra Usa e questi Stati arabi. Non c'è un rapporto tra pari. Sono piccoli Stati, come il Qatar ad esempio, creati apposta perché c'è il petrolio.

Che idea si è fatto della guerra in Iraq?
L'intervento americano non è il classico "intervento coloniale". È qualcosa di diverso. La verità è che gli USA sono interessati solo al petrolio: se questo non ci fosse stato non si sarebbero interessati mai all'Iraq e quindi alla sua dittatura. Gli iracheni erano già un popolo oppresso che viveva nella miseria, con l'occupazione questa miseria aumenterà, perché gli occupanti lo saccheggeranno e lo faranno indebitare.

Crede che possa nascere in Iraq un sentimento diffuso di opposizione all'occidente?
Non c'era e non c'è in Iraq una vera opposizione politica ai regimi satelliti degli Stati Uniti perché i partiti progressisti e democratici non esistono perché sono stati decimati, nel corso degli anni, in seguito ad una politica di repressione e per la corruzione dilagante anche negli ambienti della classe media. Quei pochi soldi che derivano dallo sfruttamento petrolifero servono a mantenere questi regimi.

In questo scenario, quindi, hanno buon gioco gli integralisti.
I gruppi dell'Islam politico trovano un terreno libero, sgombro, e riescono con molta facilità a colmare il vuoto creato dall'assenza di una opposizione democratica, ma soprattutto che sia legittimata dai governanti. Ed è così che questi gruppi illegali, che sono facilmente manovrabili, riescono ad emergere.

Quella dell'Iraq è una liberazione o un'occupazione?
Un'occupazione militare è un'occupazione militare punto e basta. Chiamarla "liberazione" fa ridere. Per quanto riguarda i mezzi per opporsi all'occupazione, io sono un non violento e credo profondamente non solo nella necessità morale della non violenza ma nella opportunità politica della stessa. Il dialogo e il disarmo totale sono le uniche strade che restano all'umanità per salvarsi dalla follia.

Come vede lei un intervento dell'ONU?
Io non so se l'ONU esiste ancora, e che valore abbia. So solo che è nato dopo la Seconda guerra mondiale. Che era voluto dalle potenze vincitrici che predicavano la costruzione di un mondo senza guerra. Ora, dopo più di cinquant'anni, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo è divenuta carta straccia. Così come il diritto all'autodeterminazione dei popoli: nessuno lo rispetta. Mi sembra cha valga la legge del più forte.

I kamikaze sono spesso padri di famiglia, laureati, ingegneri, quindi persone che togliendosi la vita hanno qualcosa da perdere, qualcosa che hanno costruito con sacrificio. Qual è l'approccio dell'Islam, in generale, nei confronti di un valore importante come la vita?
L'Islam rispetta la vita e percepisce qualsiasi attentato a questa come un sacrilegio. Significa attentare all'esistenza del creato di Dio, sia questo albero, pianta, animale, uomo e, quindi, se stessi. Il creato è opera del Signore, ecco perché è sacro. L'Islam, come qualsiasi ideologia o credo, è soggetto a diverse interpretazioni, probabilmente anche i kamikaze ne hanno una tutta loro.

Spesso, quando si parla di uno Stato a maggioranza musulmana, si pensa sia necessario un riferimento all'Islam. È un binomio inscindibile?
No. È importante fare questa distinzione perché l'Islam non spiega un bel niente. E questo lo dimostra il fatto che quando accade qualcosa in un Paese a maggioranza non-musulmana non si tenta di spiegarlo ricorrendo alla religione. Ci sono state sempre, in situazioni di conflitto, persone che hanno fatto sacrificio della propria vita, anche il cristianesimo ha avuto i suoi martiri.

Allora, quali sono le ragioni dei guerriglieri e dei kamikaze?
La spiegazione sta nelle situazioni politiche, sociali ed economiche. Ad ogni situazione ognuno risponde in maniera diversa, al di là della fede religiosa. Questa viene presa solo a pretesto per delle azioni, anche violente. Qualcuno forse sì, ma non bisogna pensare che tutti agiscano per motivi religiosi. Prenda il caso dei palestinesi, ad esempio: è un popolo che è stato sacrificato per permettere ad un'altra popolazione di prendere il suo posto e questo genocidio del popolo palestinese va avanti da 56 anni; tutti ne sono consapevoli perché avviene alla luce del sole ma nessuno muove un dito. Tutti ne hanno vergogna in qualche maniera, e questo crea anche qualche imbarazzo, però si mettono vittime e carnefici sullo stesso piano, nella migliore delle ipotesi. Le ragioni religiose c'entrano poco. Più semplicemente chi viene ammazzato non può far altro che reagire.

Sta di fatto, però, che gli integralisti uccidono e si uccidono in nome di Dio. Questo induce i più maliziosi a pensare che nel Corano vi sia una qualche legittimazione della violenza.
La violenza è illegittima in qualsiasi maniera. Figuriamoci, poi, se si strumentalizza un Testo Sacro per metterla in atto.

Pensa che la soluzione della questione palestinese possa costituire un tappa verso la pacificazione tra il mondo occidentale e il mondo arabo?
Quale pace? Francamente non ne vedo le premesse. Si continua a massacrare una popolazione indigena per mettere al loro posto i coloni. Il muro che stanno costruendo in Palestina non mi sembra una tappa verso la pace, visto che toglie territorio ai palestinesi.Il massacro continua imperterrito. Nonostante tutto però ho una residua, ma forte, speranza che si arrivi ad una tregua. Alla fine gli israeliani, comunque, dovranno smetterla.

Come giudica il moderatismo israeliano? Mi riferisco in particolare alle diserzioni dei soldati israeliani che non condividono la strategia bellica.
Certo, quello che succede a livello personale è qualcosa di rilevante. È importantissimo senz'altro. Ma i politici israeliani riescono ad utilizzare persino queste persone per i loro fini di potere. Quindi pieno rispetto e ammirazione per questi pochi coraggiosi. Invece, senso di ribrezzo e disprezzo per chi li strumentalizza per fini di guerra e di potere.

Arafat e Abu Ala riusciranno a creare le premesse per un dialogo?
Non conosco molto dell'attualità. Non perché non mi interessa. Vede, c'è anche un livello emotivo, per cui sentire le notizie o seguire un telegiornale per me è un'esperienza molto forte. Da dieci anni mi capita molto raramente di dare un'occhiata al giornale. Tanto le notizie essenziali si sanno perché è la gente che ne parla. Il resto sono solo commenti o propaganda.

Perché proprio da dieci anni? Si riferisce ad un episodio in particolare?
Nel mondo dei Mass Media si è passati da un livello di propaganda elaborata, dialettica in qualche modo, ad un livello più basso. Dal 1990-91 si è passati a propaganda pura, di bassa leva. La propaganda anti-comunista della Guerra Fredda pur essendo di tipo ideologico rimaneva sempre nell'ambito di un confronto tra forze poste su uno stesso livello, in qualche modo era percepita come dialettica interna. Mentre oggi la propaganda filo-sionista e anti-araba, e anti-islamica, è sentita come vera e propria propaganda di guerra. Non più come dialettica interna.

 

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