Pubblicato su Politica Domani Num 32 - Gennaio 2004

Dopo Kyoto
Una corsa ad ostacoli
Di fronte alle catastrofiche previsioni sul futuro della terra, a Kyoto è stato cercato un difficile compromesso. La storia del difficile cammino della ratifica

di Alessandro Lovato

Chi firma e chi non firma
Se furono 83 i paesi firmatari di Kyoto, non tutti vi aderirono in tempi brevi. Nell'Ottobre 2001 a Marrakesh si tenne la Cop 7, appena un mese e mezzo dopo gli attentati terroristici di New York e Washington. Fino a quel momento soltanto 43 nazioni avevano ratificato il trattato, e non certo le più inquinanti. Tra gli altri, mancavano all'appello i paesi dell'Unione Europea, gli Stati Uniti e la Russia. L'UE annunciò che avrebbe firmato il protocollo entro un anno, come puntualmente avvenne nel Maggio 2002. Harlan Watson (Stati Uniti) dichiarò senza mezzi termini: "Gli Stati Uniti non hanno intenzione di ratificare il Trattato di Kyoto". Poiché per essere operativo il protocollo deve essere ratificato dai paesi responsabili del 55% delle emissioni nocive, la sorte di Kyoto era - ed è - nelle mani della Russia (responsabile del 17% dei gas nocivi). Dopo una prima assicurazione però, in Ottobre e poi all'inizio di Dicembre 2003, Putin ha detto che l'applicazione del protocollo avrebbe limitato lo sviluppo economico della Russia e che era necessario rivederne le condizioni.

USA - Contro Kyoto un protocollo alternativo
Occorre ricordare che gli Stati Uniti sono responsabili del 25% dei gas serra emessi annualmente, quindi una loro non ratifica del trattato comporterebbe un serio danno all'ambiente. La decisione statunitense era nell'aria poiché Bush nel G8 di Trieste aveva detto che era necessaria un'alternativa a Kyoto, magari più efficace del protocollo firmato in Giappone, e che questa sarebbe stata studiata da una Commissione parlamentare statunitense. In alternativa a Kyoto fu proposto dai repubblicani un disegno di legge che prevedeva uno stanziamento di due miliardi di dollari in nuove tecnologie per ridurre le emissioni di gas serra, un miliardo di dollari per trasferimenti di tecnologie nei paesi in via di sviluppo e un registro nazionale delle industrie a favore di una riduzione volontaria delle proprie emissioni. Ma perché a Marrakesh il portavoce americano non menzionò quest'alternativa? Ufficialmente perché l'amministrazione americana, in seguito ai tragici attentati dell'11 Settembre, aveva accantonato il progetto per dedicarsi completamente alla nuova situazione internazionale. In realtà le cose non stavano proprio così. La commissione parlamentare, guidata dal Vicepresidente Cheney, era naufragata per l'eccessiva lentezza dovuta a disaccordi interni ben prima dell'11 Settembre.

USA - I sostenitori di Kyoto
I sondaggi indicano che il popolo americano è favorevole agli accordi di Kyoto: una sostanziale spaccatura con il governo Bush, che è appoggiato però dalle grandi industrie. Anche il Congresso è, in parte, favorevole a Kyoto: il disegno di legge alternativo a Kyoto, firmato, tra gli altri, da tre consiglieri di Bush: Chuck Hagel, senatore del Nebraska e capo della Commissione Affari Esteri, Frank Murkowsky, senatore dell'Alaska e capo della Commissione Energia e Commercio, e Larry Craig, senatore dell'Idaho, è stato bocciato dal Congresso. Un comitato di undici scienziati della National Academy of Sciences, incaricati da Bush di realizzare un rapporto sulle cause del riscaldamento del pianeta, nonostante la presenza di scettici come il climatologo Richard Lindzen del Massachussets Institute of Technology, è giunto alla conclusione che il riscaldamento globale è un problema reale che peggiora man mano che passano gli anni, e che il grado di attendibilità delle previsioni è "maggiore oggi (2001) di quanto non fosse cinque o dieci anni fa".
Intanto accadeva un fatto insolito: dodici stati, tra cui il Massachussets e la California, indipendentemente dal governo centrale, firmano per proprio conto un accordo del tutto simile al protocollo di Kyoto.

USA - Le ragioni del disegno di legge
Con il disegno di legge respinto dal Congresso sembrava che gli Usa intendessero spostare il problema da problema connesso alla salvaguardia dell'ecosistema nella sua globalità a problema economico e di rapporti di forza con i paesi emergenti. Le ragioni economiche: concedere ai paesi in via di sviluppo (p.v.s.) cospicui finanziamenti per l'installazione di impianti di produzione a basse emissioni, avrebbe come conseguenza un aumento dei costi di produzione. I prodotti dei p.v.s. sarebbero quindi meno competitivi rispetto alla produzione statunitense sulla quale gravano i costi della manodopera. Le ragioni politiche: uno dei paesi sostenitori del protocollo di Kyoto è la Cina. Il paese è uno dei più devastati dalle alluvioni causate dai cambiamenti climatici, e sarebbe anche quello più favorito dai finanziamenti previsti dal protocollo per l'impiego di tecnologie a bassa emissione. Ma uno sviluppo economico e politico della Cina viene visto dall'amministrazione Bush come una minaccia per gli USA.

I costi del protocollo
Da studi sulla spesa che i paesi industrializzati (esclusi gli USA) dovrebbero sostenere per ratificare il protocollo, risulta che i costi per l'Unione Europea sarebbero compresi tra 0.06 e 0.3 % del P.I.L. dell'UE. Una cifra certamente non spropositata.
Per quanto riguarda "casa nostra" le opinioni sono contrastanti. Per il ministro dell'ambiente Matteoli i costi per l'Italia ammonterebbero a circa 55-60 miliardi di euro. Il WWF e noti ricercatori, tra i quali Marino Gatto, sostengono invece che la ratifica del protocollo per l'Italia sarebbe un guadagno. Infatti, si legge in un articolo su Nature, nella produzione di un qualsiasi bene (in particolare dell'energia elettrica), oltre ai costi industriali andrebbero considerati anche quelli relativi ai danni ambientali provocati sia dal processo industriale che dallo smaltimento delle scorie. La stima è che, se l'Italia cambiasse i metodi di produzione dell'energia elettrica per adeguarsi al protocollo di Kyoto riducendo del 17% le emissioni entro il 2010, risparmierebbe al netto 1500 milioni di euro l'anno. A fronte di un aumento dei costi industriali di produzione di 300 milioni di euro si avrebbe un risparmio di 1800 milioni di euro annui in spese ambientali. E la cosa più interessante è che in queste cifre non sono inclusi i benefici (anche economici) della diminuzione di emissione di gas serra.

Dibattito aperto
I punti più contrastati e dibattuti del protocollo di Kyoto sono tre: le sanzioni, il mercato delle emissioni e i meccanismi di inclusione dell'assorbimento del carbonio (carbon sinks).
Ovviamente si discute sulle sanzioni.
Il mercato delle emissioni funziona così: è possibile per i paesi che superano la propria quota di emissioni nocive "comprare" quote da altri paesi poco inquinanti (magari perché poco sviluppati e quindi poco industrializzati). La cosa viene percepita da una parte come una forma di aiuto economico dato dai paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo, dall'altra come una beffa o un altro modo per mantenere i p.v.s. in una condizione di dipendenza.
Cosa sono i carbon sinks? Le nazioni in via di sviluppo, incapaci per il momento di istallare impianti poco inquinanti, possono assumere dei "crediti" temporanei con la riforestazione. In questo modo le emissioni in eccesso potrebbero essere riassorbite dalle foreste. Il punto è che, sebbene le foreste siano importantissime per la regolazione del regime pluviale, non possono essere considerate dei filtri dell'aria, ma solo dei depositi di carbonio. Occorre ricordare infatti che durante la fotosintesi clorofilliana il carbonio dell'anidride carbonica viene utilizzato dalle piante per crescere o per "ripararsi", mentre l'ossigeno emesso dalle foglie proviene dalla scissione delle molecole d'acqua. Una volta che il legname venisse bruciato il carbonio sottratto all'anidride carbonica verrebbe immesso di nuovo nell'atmosfera. Lo afferma Riccardo Valentini, professore di ecologia forestale all'Università della Tuscia e tra i membri italiani dell'International Panel on Climate Change (Ipcc)

IPCC
Il WMO (World Meteorological Organization) e l'UNEP (United Nations Environment Programme) nel 1988, preoccupati di un possibile cambiamento climatico globale, hanno creato l'IPCC. L'organismo raccoglie informazioni scientifiche, tecniche, e socio economiche rilevanti per capire le basi scientifiche dei rischi collegati a cambiamenti climatici indotti dall'uomo, le possibili conseguenze e le possibilità di adattamento e di rallentamento del processo. Tutto ciò in base a criteri di completezza, oggettività, disponibilità e trasparenza. (www.ipcc.ch)

 

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