Pubblicato su Politica Domani Num 30 - Novembre 2003

Tradizione musicale Afro-Americana
Una Musica chiamata Strada
Arriva dall'America, ma non è nuovo in Italia. Il rap. È già moda?

di Augusto Pallocca

Che macello, la moda. Va e viene, parte e torna. Sparisce per lunghi periodi e poi, quando torna sulle scene, sembra che sia tutto nuovo, inedito, originale. Poi, a ben vedere, si scopre spesso che si tratta della solfa astutamente trita e debitamente ritrita dalle aziende, dalla tv, dalle riviste con la carta più patinata. Succede con l'abbigliamento, con le auto, con un personaggio televisivo, con un modo di dire, con un libro o con un modo di mangiare. Ma succede anche con la musica, e, quest'anno, in Italia, sembra che tocchi proprio al rap. E stavolta non è il rap buonista di Lorenzo, ma è quello nero, cattivo e luccicante dei video di mtv, quello degli Obie Trice e dei 50 cent, della vita di strada convertita in vita di lusso, degli afroamericani che vivono come bianchi e dei bianchi che si atteggiano ad afroamericani. In realtà, anche stavolta, niente di nuovo. Il rap esiste discograficamente da più di trent'anni, e affonda le sue radici nelle più sentite origini musicali e culturali dei neri d'America. È diventato il manifesto della rivalsa black nei confronti del sistema bianco, la dimostrazione polemica che dal letame nascono i fiori. Ma anche i diamanti. I rapper americani di successo vendono, in patria e all'estero, milioni di dischi, e non ne fanno mistero a nessuno. Nei loro video c'è l'ostentazione del successo, l'orgoglioso e beffardo vanto del riuscire a far quattrini. Ci sono le Mercedes, i gioielli, le belle donne e i liquori pregiati. Le magliette che in petto portano la scritta "Io sono il sogno americano". Il tutto a fare da contorno a questa musica che è un po' da ballare, un po' da ascoltare, un po' da ridere e un po' da rifletterci su.
Strano ma vero, nell'ultima stagione anche in Italia abbiamo accolto a braccia aperte questo sound, e tutto il bizzarro fenomeno di costume che ne consegue. Con la complicità di radio, televisione e cinema, anche da noi, come già in Francia, in Germania ed Inghilterra, sono cominciati a pullulare concerti, manifestazioni, meeting tutti dedicati a questa nuova importazione d'oltreoceano. Che poi, anche in Italia, tanto nuova non è. Il rap nella penisola esiste già dai primi anni Ottanta, quando questa tendenza musicale ancora giovane aveva incontrato il terreno culturalmente fertile dei centri sociali, culla di alcuni dei gruppi storici della scena italiana. Era un rap politicizzato, impegnato, forse a volte anche retorico, a tratti vittimista, ma comunque autentico, genuino, povero e perciò estraneo a qualsiasi tipo di contaminazione commerciale.
È negli anni Novanta che questo particolare modo di fare musica ha una prima svolta, perché anche tra gli addetti ai lavori si comincia a diffondere la convinzione che il salto di qualità e di vendite del rap sia legato strettamente ad un'influenza crescente dello stile statunitense su quello europeo. Arrivano allora numerosi lavori afflitti da un manierismo irritante, da un suono e da contenuti ispirati alla tradizione afroamericana ma, ovviamente, totalmente fuori contesto nello Stivale. Escono, d'altra parte, anche album di successo prodotti da artisti come Neffa o gli Articolo 31, rimasti nei piani alti della classifica fino ad oggi grazie al loro indiscutibile eclettismo.
Il resto, è storia recente. L'uscita nelle sale cinematografiche di "8 Mile", mediocre lungometraggio sulla vita del rapper Eminem, ha portato con sé l'esplosione di questo trend d'importazione, che beneficia solo di striscio gli artisti nostrani. Da allora, centinaia di passaggi radiofonici per le hit americane più in voga, videoclip sempre più luccicanti in video, eventi e live sempre più frequenti nei locali e nei palazzetti. E una miriade di gente appassionata a questi ritmi funky e a questi uomini e donne di colore da stimare come artisti, ma anche da imitare nel look e nelle movenze, da ritagliare, staccare e appendere come poster nella propria cameretta. La storia si ripete. Ancora una volta, una elite di radio ed emittenti si è trovata a dettare alle nuove generazioni, come era successo per il pop ed il rock, una nuova scelta musicale che privilegia grandi interessi economici di grandi major e di grandi musicisti che parlano inglese. In un modo o nell'altro, anche questa è globalizzazione. E se vedere ai concerti rap centinaia di ragazzi che gesticolano e si vestono come i loro beniamini a stelle e strisce può dare un senso di forza, unità e abbattimento delle frontiere e delle distanze, riesce sicuramente a dare l'idea di un inquietante senso di ordine ed omologazione. La rivoluzione non andrà in televisione.

 

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Num 30 Novembre 2003 | politicadomani.it