Pubblicato su Politica Domani Num 30 - Novembre 2003

Mario Luzi, poeta del nostro tempo

di Maria Mezzina

La vicenda di Ipazia ha come sfondo il conflitto culturale e politico di Alessandria d'Egitto nel IV secolo, quando alla civiltà ellenistica, alle soglie ormai della dissoluzione, sta per sostituirsi la civiltà cristiana. Mario Luzi, che conosce le poesie di Sinesio di Cirene, discepolo di Ipazia, ne è affascinato. Al poeta era stato commissionato un libretto da tradurre in musica. Era l'estate del 1969, e sulle pagine bianche cominciano a prendere forma le vicende che facevano da scenario alle poesie di Sinesio. La donna diventa il simbolo del crollo di una civiltà e dell'avvento di tempi nuovi. Il martirio di Ipazia ha un che di messianico perché rivivono in esso le grandi tragedie del nostro tempo.
Nel pensiero di Luzi c'è come un filo che lega Ipazia, la poesia e la Chiesa.
"La storia di Ipazia era una cosa accaduta ma immessa nell'eventualità continua del mondo e per me non era finita con il suo essere accaduta".
"La tradizione è la forza originaria che si trasmette di generazione in generazione nell'empito umano e che porta a creare, a fare, a modellare, a inventare… la Chiesa è questo per eccellenza: un prodotto della tradizione e dell'attesa del futuro".
"La poesia richiede una visione unitaria del tempo … la poesia è il momento in cui questo carico, questo retaggio di anni, di cose, di esperienze, che l'umanità riceve intrinsecamente, anche se non se ne rende conto, brucia per diventare qualche altra cosa, per diventare prospettiva, speranza per il dopo".
È credente Luzi? Il poeta non è un uomo di chiesa ma di cristianesimo sono imbevute le sue opere e il suo pensiero. È un cristianesimo ricevuto dalla madre, "primario", che egli ha poi "immesso nei suoi studi, fortificandolo, trasportandolo in un orizzonte più vasto". Non è osservante, ma gli piace "sentire messa come piaceva al Manzoni", specialmente quella di un amico: "Sentivo la sua messa, lui faceva omelie al cospetto di tre, quattro persone; ma non celebrava, non faceva una commemorazione. Per lui avveniva allora, avveniva ogni volta, la rivelazione cristiana".
Nel 1999 il Papa gli affida il commento alla via Crucis. "Al primo momento sono stato esitante … Poi mi sono messo al lavoro … ho scritto la passione di Cristo, un testo con Lui unico protagonista, Lui che parla, un monologo rivolto al Padre, in cui si dibattono la natura umana e il divino compresenti nella sua tribolazione".
È quello di Giobbe il Dio che il poeta più sente vicino, "In Giobbe io vedo un raccordo tra l'uomo biblico e il cristiano a venire, Giobbe vuole un Dio fraterno che gli risponda, mentre il Dio biblico è paterno, a volte anche molto tenero, ma sempre onnipotente e regola non la vita individuale ma quella di tutto il suo popolo, e a Giobbe sembra crudele. Non è che Giobbe rifiuti il dolore ma vuole sapere il perché della sofferenza. Per questo cerca un Dio fraterno con una voce interiore per l'uomo". Quella voce parla ora alla coscienza dell'uomo moderno: "Nulla sembra più reggere alla tempesta che abbiamo scatenata. Siamo in un momento di trapasso della storia umana che coinvolge la nostra coscienza individuale e collettiva… E' una crisi profonda dell'umanità che, risvegliata dalla miseria e dalla disperazione, prende coscienza della condizione nella quale è costretta da una politica di potenza, e di prepotenza, che provoca immensi squilibri nella distribuzione delle risorse e della ricchezza".

 

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Num 30 Novembre 2003 | politicadomani.it