Pubblicato su Politica Domani Num 30 - Novembre 2003

Figure femminili del sapere scientifico
Ipazia di Alessandria
Astronoma, matematica e filosofa, Ipazia fu “sacerdotessa” del sapere e custode della cultura ellenistica ormai al tramonto. Non è rimasto nulla dei suoi scritti, ma i suoi studi (e la sua fama) sono rimasti nel tempo

di Vittorio Alessandrelli

Ipazia nasce ad Alessandria d’Egitto intorno al 360 d.C. Figlia del matematico e filosofo neoplatonico Teone, ella ben presto divenne la rappresentante più significativa e qualificata della filosofia ellenica.
Fu una tenace assertrice della ragione e della tolleranza, contro il dogmatismo dei cristiani, oppositori ciechi della cultura greca. Nel clima di disfacimento che caratterizzò tutto il IV secolo, percorso da lotte politiche e ideologiche violentissime, la sua figura si staglia luminosa, consapevole di essere, insieme a pochi altri, la superstite depositaria del sapere e dei valori di una civiltà giunta ormai al suo tramonto; ella rimarrà fino alla fine, da lei presagita, nella città in cui sin da giovane cominciò ad esercitare il suo magistero filosofico e scientifico.Nel marzo del 415 fu uccisa da un gruppo di fanatici cristiani, massacrata in pieno giorno nelle vie di Alessandria.
La ricostruzione dell’attività di Ipazia è affidata a testimonianze ed indizi, perché non possediamo nessuno dei libri da lei scritti, che sembrano essere come scomparsi: non abbiamo alcuna prova né della loro sopravvivenza, chissà dove, né della loro definitiva distruzione.
La testimonianza più antica dell’attività scientifica di Ipazia, si deve a Teone stesso, suo padre.
Nell’intestazione del III libro al ‘Sistema Matematico’ di Tolomeo, Teone scrive: “Commento di Teone di Alessandria al III libro del Sistema Matematico di Tolomeo. Edizione controllata (p a r a n a g n ws q eis h V ) dalla filosofa Ipazia mia figlia”. Si è molto discusso su questa frase di Teone, fino a concludere con lo studioso americano Alan Comeran nel 1990, che Ipazia non si limitò semplicemente a controllare il commentario del padre, ma che lei stessa fu editrice dell’intero Almagesto (Il Sistema Matematico), almeno dal III libro in poi. Non è possibile seguire qui le argomentazioni di Comeran, molte delle quali di carattere strettamente filologico, e basate su riscontri incrociati di varie testimonianze: tuttavia la sua conclusione seppure ragionevole e probabile, rimane allo stato attuale un’ipotesi.
Nell’Antichità, l’edizione di un testo non si effettuava con i canoni del rigore filologico richiesto per un’edizione critica in senso moderno; si trattava piuttosto di edizioni semplificate ad uso degli studenti, e si rifacevano più a criteri di correttezza e coerenza matematiche che di fedeltà al manoscritto.
Da studi recenti, risulta che al tempo dell’edizione dell’Almagesto, Ipazia insegnava le scienze matematiche presso la scuola di Alessandria, prima affiancando il padre e poi succedendogli: in questa attività, secondo la testimonianza di Filostorgio, non soltanto superò il maestro, suo padre, soprattutto nell’osservazione degli astri, ma “fece avanzare di molto le scienze matematiche”, fondando una sua propria scuola.
Ipazia insegnò ininterrottamente ad Alessandria per più di vent’anni: fu nel 393 che Sinesio, un giovane aristocratico di Cirene, che doveva legarsi a lei di un affetto filiale pieno di venerazione per la Maestra, giungeva ad Alessandria, richiamato dalla fama “della donna che a buon diritto presiede ai misteri della Filosofia”. Da quel momento, per mano del devoto Sinesio, l’attività di Ipazia è attestata fino al giorno del suo assassinio nel marzo del 415.
Ipazia non si limitò al solo insegnamento, perché oltre che trasmettere un sapere millenario, certamente lo aggiornò e ampliò, soprattutto in Astronomia in base alle più recenti osservazioni.
Una fonte del X secolo, il ‘Suda’, che a sua volta dipende da una fonte del VI secolo, quindi relativamente vicina all’epoca della vita di Ipazia, riporta che ella “scrisse un commentario a Diofanto, il ‘Canone Astronomico’, e un commento alle ‘Coniche’ di Apollonio”.
Non si sa, tuttavia, quale fosse l’opera di Diofanto commentata da Ipazia; la mancanza del titolo fa però credere che si trattasse dell’opera più importante di Diofanto, quella che lo caratterizza, e cioè l’ARITMETICA.
Alcuni storici (uomini), contestano che Ipazia abbia scritto il Canone Astronomico e ritengono che si sia limitata anche qui ad un commento: questa visione riduttiva dell’opera della matematica di Alessandria, non regge però ad alcune semplici considerazioni di buon senso. Perché il Suda che cita Apollonio e Diofanto non riporta il nome dell’autore del Canone del quale Ipazia si sarebbe limitata al solo commento? Inoltre, argomento più stringente, prima di Ipazia non è attestata alcuna opera astronomica con questo titolo, e la grande opera di Tolomeo, prima che gli Arabi le dessero il nome con la quale è oggi universalmente conosciuta di Almagesto, era indicata con il suo titolo originale di ‘Sistema o Costruzione Matematica’, sicché se mai il ‘Canone’ è esistito, esso deve essere con quasi certezza attribuito ad Ipazia.
E’ da sottolineare il fatto che Ipazia si occupasse di argomenti così distanti tra loro come l’algebra diofantea e la teoria delle coniche di Apollonio. Tutti gli storici della Matematica sono concordi nel dire che la geometria e l’algebra rimasero separate fino al XVII secolo, quando Descartes e Fermat inventarono la Geometria Analitica. Il fatto che l’astronoma alessandrina si occupasse di due discipline così distanti, può far sorgere l’idea, non del tutto peregrina, che ella avesse in qualche modo anticipato di quasi 1300 anni la scoperta della Geometria Analitica, o almeno ne avesse divinato la possibilità.
Quali prove abbiamo che le cose siano potute andare così?
Dal momento che Ipazia era interessata ad individuare le leggi del moto degli astri, è possibile pensare che in Diofanto ella cercasse metodi quantitativi più adeguati a risolvere le difficoltà che l’osservazione astronomica le poneva, rispetto a quelli puramente geometrici: Sinesio ci dice che l’Astronomia “procede alle sue dimostrazioni in maniera indiscutibile e si serve dell’aiuto della geometria e dell’aritmetica, che non sarebbe disdicevole chiamare retto canone di verità”.
D’altra parte lo stesso Apollonio sin dal III secolo a.C. aveva mostrato l’importanza dei metodi algebrici applicati alla geometria: di tali metodi si erano avvalsi Ipparco, Tolomeo e Teone stesso. Quando questi autori (a parte Teone) scrivevano, Diofanto non era però ancora nato: perché non pensare allora che Ipazia possa essersi avvalsa dell’opera del grande algebrista suo concittadino, per fondare una qualche forma di ‘geometria algebrica’?
Noi sappiamo da Filostorgio e dal Suda che Ipazia aveva scoperto qualcosa di nuovo riguardo all’Astronomia e al moto degli astri e che ella rese questo suo nuovo sapere acquisizione accessibile agli studiosi della sua epoca, esponendo le sue scoperte in un’opera che a questo punto non potrebbe che essere il ‘Canone Astronomico’.
Sinesio ci testimonia come dalla sua Maestra egli avesse appreso a disporsi in modo libero e scevro da pregiudizi nei confronti della tradizione, ed egli, come si evince dai suoi scritti, aveva piena coscienza che tra il tempo di Ipparco e dello stesso Tolomeo, la matematica aveva fatto progressi tali da dare l’impressione che là si fosse al principio di un’opera e qui al suo compimento.
Nel concludere, mi piace sottoporre un’ipotesi che meriterebbe di essere sviluppata dalla fantasia di un Borges. Perché Ipazia si interessa tanto al trattato sulle coniche di Apollonio? Se fosse stata una matematica pura, non ci sarebbe nulla di strano, ma ella era soprattutto e prima di tutto un’astronoma. Perché uno studioso di astronomia dell’antichità avrebbe dovuto interessarsi alla teoria delle coniche, quando tutti i moti erano ricondotti a moti circolari uniformi o a loro combinazioni? Una risposta plausibile è che, guidata da quella libertà di pensiero senza pregiudizi verso la tradizione, che aveva insegnato a Sinesio, Ipazia potrebbe avere visto che le orbite dei pianeti sono ellissi di cui il Sole occupa uno dei fuochi.

 

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