Pubblicato su Politica Domani Num 30 - Novembre 2003

Israele Palestina
Il diritto al ritorno contro la Legge del ritorno
Non è un semplice gioco di parole, ma uno tra i più importanti motivi
che dividono israeliani e palestinesi da una pace duratura

di Fabio Ciarla

I palestinesi vorrebbero tornare nelle case lasciate nel 1948 ma non possono. Agli ebrei di tutto il mondo e ai loro discendenti è permesso diventare cittadini di Israele solo facendone domanda. Siamo di fronte ad uno di quei non rari casi in cui un diritto è negato da una legge; la questione dei profughi è tutta qui e apre interrogativi etici e umanitari delicatissimi. Esiste il diritto dei palestinesi al ritorno nei territori dove risiedevano prima del 1948? È oggettivamente possibile il loro reintegro nella società israeliana? Israele è uno stato “ebraico” o piuttosto “degli ebrei”?
I due mondi cominciarono a contrapporsi allorché Theodor Herzl, fondatore del sionismo, pensò che “una terra senza popolo (la Palestina ai suoi occhi era questo) per un popolo senza terra” fosse la soluzione giusta per salvare gli ebrei, visto che l’Europa non era più un posto sicuro. Alla fine dell‘800 Herzl fu premonitore dell’Olocausto nazista di 40 anni dopo; mentre ora, per un crudele scherzo del destino, proprio Israele risulta essere per un ebreo il luogo meno sicuro dove vivere.
In realtà la Palestina non era una “terra senza popolo”. Dopo la costituzione dello Stato di Israele, al-Nakba (la catastrofe) per i palestinesi, circa 800 mila persone furono espulse da 531 città e villaggi; ad essi si aggiunsero altri 130 mila profughi di borghi più piccoli per un totale, probabilmente, di 935 mila unità (le stime sono diverse). L’esodo di massa è stato da sempre giustificato dagli israeliani come una partenza volontaria. I fatti in realtà sembrano diversi; Benny Morris, uno studioso della corrente dei “nuovi storici” israeliani, analizzando un rapporto dell’intelligence israeliana dell’epoca, afferma che furono solo 5% le partenze volontarie dei palestinesi, in risposta agli appelli delle autorità arabe; per il resto l’esodo fu provocato dalle operazioni militari israeliane (55%), dalle azioni delle formazioni paramilitari ebree (15%), da opere di disinformazione (2%) e da precisi ordini di espulsione (2%), mentre un altro 10% lasciò per paura, dopo il massacro del villaggio di Deir Yassin (il 9 aprile 1948 250 persone furono uccise dagli ebrei dell’Irgun Zwai Leumi - Organizzazione Militare Nazionale). Dal 1948 ad oggi questi profughi hanno vissuto nei campi di Siria, Libano, Giordania e nella striscia di Gaza assistiti dall’Unrwa (Agenzia di Soccorso e Lavoro delle Nazioni Unite per i Profughi della Palestina). Le ultime stime parlano ormai di quasi 5 milioni di persone mai assimilate dai paesi ospitanti, anzi spesso discriminate (in spregio alle tanto osannate istanze panarabe di quei governanti che hanno “usato” la causa palestinese per i propri interessi), che vorrebbero tornare nelle loro terre. A questo diritto si oppone però il veto di Israele che contrappone a tali richieste (supportate peraltro dalle risoluzioni ONU 181, 194, 242 e 338), imprescindibili questioni di sicurezza interna.
Il problema in realtà sembra un altro: per ragioni demografiche i palestinesi sono un pericolo perché altererebbero gli equilibri interni; le loro terre sono per la maggior parte ancora abbandonate, ma farli rientrare significherebbe per Israele mettere in discussione la propria stessa identità di “stato ebraico”. Nonostante David Ben Gurion, uno dei padri fondatori di Israele, si esprimesse così al XVII congresso sionista del 1931: “…non accetteremo né oggi né in futuro il predominio di un gruppo nazionale sull’altro. E non accettiamo neppure l’idea di uno stato ebraico che in fondo significherebbe il dominio degli ebrei sugli arabi in Palestina”, le mosse israeliane andarono in tutt’altra direzione. E qui entra in scena la Legge del ritorno, approvata nel 1950 dalla Knesset, il Parlamento israeliano. Con questa norma Israele cercò di aumentare il più possibile la popolazione ebraica residente, facilitando la concessione della cittadinanza agli ebrei di tutto il mondo e ai loro discendenti in successione matrilineare; con ciò riconoscendo un diritto dove questo non esisteva, a meno che Israele non venga considerato uno Stato “degli ebrei” appunto.
Volendo quindi rispondere agli interrogativi in apertura, dovremmo certamente riconoscere come “giusto” il diritto al ritorno dei palestinesi, almeno in forma di principio, visto che il loro reintegro nella società israeliana appare molto difficile sia a livello sociale che economico. Israele è in questo senso uno stato “degli ebrei” ma deve riconoscerlo insieme ad altri suoi errori, ai quali potrà parzialmente rimediare accogliendo una parte dei profughi più determinata a tornare e pagando indennizzi per le terre che incamererà definitivamente. Gli arabi vedrebbero queste contrattazioni come qualcosa di simile – con le dovute proporzioni – alle “riparazioni” che la Germania Federale pagò a Israele per i beni sottratti agli ebrei durante l’Olocausto. Le contrattazioni sarebbero difficili da accettare ma sarebbero pur sempre un riconoscimento dei danni subiti.
Non esiste pace senza giustizia, come ha detto più volte anche Papa Giovanni Paolo II, perciò è ora che in Palestina si cominci a procedere a favore dei diritti delle persone in modo concreto perché si possa ricominciare a parlare di pace.

 

Legge del ritorno

1) Ogni ebreo ha diritto a immigrare in Israele.
2-a) L'Aliah (l'insediamento in Israele) avviene in virtù di un visto di Oleh (immigrato)
2-b) Il visto di Oleh viene accordato a ogni ebreo che esprima il desiderio di stabilirsi in Israele, salvo che il ministro dell'Interno sia convinto che il richiedente: 1) operi contro il popolo ebreo; 2) sia tale da poter mettere in pericolo la salute pubblica o la sicurezza dello Stato; 3) abbia un passato criminale tale da mettere in pericolo la pubblica tranquillità.
3-a) I diritti di una persona ebrea in virtù della presente legge, i diritti dell'Oleh in virtù della legge sulla nazionalità, così come i diritti dell'Oleh in virtù di qualsiasi altra legge sono accordati allo stesso modo a suo figlio o a suo nipote, al suo coniuge o al coniuge del figlio e del nipote di una persona ebrea, fatta eccezione per una persona che era ebrea ma che si è convertita volontariamente a un'altra religione.
3-b) Per quanto disposto dalla presente legge viene considerata ebrea la persona nata da madre ebrea, o che si è convertita al giudaismo e non appartiene a un'altra religione.

[Fonte: Giornale ufficiale dello Stato di Israele (In "Storia della Palestina" - G. Lannutti - Datanews)]

 

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