Pubblicato su Politica Domani Num 28/29 - Sett/Ott 2003

Biennale di Venezia
Più conflitti che sogni
La 50a Esposizione Internazionale d’Arte lascia il visitatore
con un dilemma insoluto di cosa sia e dove sia l’arte

di Simona Ottaviani

La definizione di arte contemporanea diventa sempre più vaga. Ormai sembra che tutto, nel senso strettamente letterale di “ogni singola cosa”, possa aspirare ad essere annoverata tra le opere d’arte. Ed è questa l’aria che si respira ai Giardini della Biennale di Venezia per la 50a Esposizione Internazionale d’Arte dal titolo “Sogni e Conflitti. La dittatura dello spettatore”. In una visita che include ben 31 padiglioni, la Biennale vuole mostrare i grandi cambiamenti in atto e riflettere sulla molteplicità dei linguaggi e sulla innegabile autonomia dei diversi contesti geografici, politici e culturali.
Convenzionalmente si ritiene che l’inizio dell’arte contemporanea corrisponda con la prima esposizione impressionista presso lo studio di Nadar, affermato fotografo parigino. Nel suo studio Monet espose la sua celebre “Impression, soleil levant” (da cui la definizione, inizialmente di stampo dispregiativo e polemico, “impressionismo”). Era chiaramente una reazione, una ribellione alle Accademie che in quel periodo quasi soffocavano tutte quelle espressioni e creazioni artistiche che andavano al di fuori di rigidissimi canoni prestabiliti. Sembrava quasi che per essere definito artista, e riscuotere anche un discreto successo, fosse sufficiente essere null’altro che un “buon applicatore” di alcuni canoni. La ribellione parigina appare, quindi, più che legittima. Se poi si guarda tutta questa faccenda dal punto di vista della produzione artistica, in senso stretto, che ne è seguita risulta inutile qualunque commento: Manet, Monet, Renoir, Degas, e poi ancora Cézanne, Seurat, Gauguin, Van Gogh, Klimt.
Oggi però le cose appaiono diverse. La provocazione propria dell’arte (che non è però la sua unica caratteristica) sembra essere la sola cosa che emerge dalle tante opere esposte a Venezia; è raro incontrare qualcosa che comunichi quelle emozioni che in genere ci si aspetta andando a vedere una mostra.
Appena arrivati nel padiglione spagnolo, curato da Santiago Sierra, ci si accorge che esso è chiuso da un muro, di quelli tirati su in fretta, e che anche girando intorno non esiste un accesso. Ossia, c’è, ma è riservato ai soli spagnoli ai quali, oltretutto, vengono richiesti montagne di documenti, per ricevere l’autorizzazione ad entrare. Si è cercato così di ricostruire la sensazione che provano coloro che cercano di entrare clandestinamente in un paese straniero. Significato etico di altissimo livello, realizzato in modo superbo; ma l’arte dov’è?
Nel padiglione nostrano, il più vasto, si passa da un cavallo senza testa a una figura di donna completamente coperta di capelli, incontrando una enorme teca di vetro contenente pillole di ogni foggia e colore. C’è anche una stanza le cui pareti sono interamente ricoperte di gommapiuma foderata di alluminio da cucina in cui ognuno può lasciare un messaggio, un disegno, un biglietto, un chewingum masticato o qualunque altra cosa sia segno del proprio passaggio. Anche qui il senso sembra sfuggire.
L’arte, quella vera, appare invece completamente abbandonata. Come accade per l’ingresso monumentale, realizzato da Carlo Scarpa in Occasione della Biennale del 19XX, oggi in disuso, ormai abbandonato e ricoperto di una varietà così ampia di edere da far invidia a qualunque orto botanico.
È bizzarro il padiglione polacco in cui Stanislaw Dró?d? ha deciso di ricoprire le pareti di dadi da gioco in innumerevoli combinazioni: al centro, invece, un tavolo con il panno verde e sei dadi con cui poter giocare realmente. È divertente anche il lavoro di Serbia e Montenegro che ha presentato copie perfette di opere di Picasso, Mondrian, Kandinskij e Duchamp le quali sono riuscite a trarre in inganno anche occhi allenati al contatto con gli originali.
Forse la cosa migliore è stata presentata da Patricia Piccinini, nel padiglione australiano, dal titolo “We are family” che introduce in un mondo a misura di famiglia: caschi da motocicletta a due posti genitore-figlio, figure di bambini alle prese con i videogiochi e al centro della sala il pezzo forte: mamma maiale con tutta la sua cucciolata. Opera grottesca ma emozionante in cui alla bruttezza estetica degli animali fa da contrappeso la forte tenerezza che suscita una mamma che allatta i propri piccoli esprimendo in modo molto chiaro ciò che manca negli altri spazi espositivi: l’emozione.
La mostra rimarrà aperta fino al 2 Novembre. Una mostra comunque da visitare perché la Biennale di Venezia non è soltanto arti visive: è anche festival internazionale di arte cinematografica, di musica contemporanea, di danza, architettura e teatro.

 

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