Pubblicato su Politica Domani Num 28/29 - Sett/Ott 2003

L’appoggio al governo repubblicano scende al 45%
Bucce di banana
Iraq e situazione economica sono gli ostacoli sul cammino di Bush verso il secondo mandato alla Casa Bianca

di Marianna Bartolazzi

George Bush ha deluso la maggioranza degli elettori americani. Da un sondaggio di Zogby risulta che soltanto il 45% degli elettori giudica positivamente l’attuale governo. Il presidente “invincibile” è stato sconfitto dalle precarie condizioni economiche del paese e dalla disoccupazione in aumento, ma soprattutto dalle difficili situazioni in Medio Oriente, in Iraq e in Afghanistan.
Nel discorso alla nazione di metà settembre Bush non sa più come affrontare la situazione e si serve di argomenti che sanno ormai di muffa: “Faremo tutto il necessario, spenderemo quanto è necessario per vincere il terrorismo, promuovere la libertà e rendere più sicura la nazione”. Tutto il necessario sono 87 miliardi di dollari chiesti al Congresso che, sommati ai 75 miliardi ottenuti in aprile per le campagne in Iraq e in Afghanistan, fanno 162 miliardi: ben oltre i 100 previsti dai più pessimisti, quelli che la guerra non la volevano. Ma questa è un’altra storia.
Il discorso si è risolto in una patetica richiesta di aiuto all’ONU e ai paesi democratici di tutto il mondo, purché agli Usa rimanga il comando della missione: il terrorismo minaccia anche le loro città e c’è assoluto bisogno di arginare un contagio, quello del terrore, che pare inarrestabile.
La nuova “teoria epidemica” lascia a dir poco perplessi: vincendo la guerra non avevano gli Usa salvato l’Iraq dalla dittatura e posto le basi per la democrazia? La teoria del “contagio terroristico” è l’ultima invenzione per spiegare le più recenti vicende di quel paese: gli attentati e la guerriglia in atto sono letti come tentativi di soffocare democrazia e libertà (appena instaurati), per lasciare spazio alla violenza che solo con altra violenza può essere combattuta.
È probabile però che il motivo sia altro.Usa e Gran Bretagna non possono da sole sostenere i costi economici e umani di una missione partita come “libertà duratura” (dopo l’infelice “giustizia infinita”) e divenuta guerra per la sopravvivenza in un paese ostile.
Bush chiede aiuto ma non ha detto nulla sulla durata del conflitto, né sul ruolo dell’ONU, né sul programma di ricostruzione; nessun chiarimento sulle armi di sterminio “fantasma” e né sul percorso che dovrebbe portare alla pace e, invece, in Iraq si continua a morire, sia i soldati americani sia la popolazione civile.
Non c’è uno straccio di prova che sulle armi di distruzione di massa in Iraq, o il presunto legame fra Al Qaida e Saddam. Ed ora - è naturale – c’è gente in Iraq, terroristi, venuti dal Medio Oriente, per approfittare del caos politico ed economico del paese.
Il popolo americano si sta tirando indietro e il Congresso non sa cosa fare, impegnato com’è a cercare gli 87 miliardi di dollari necessari a continuare la guerra (costata finora cinque miliardi di dollari al mese di sole spese militari, al netto cioè dei soldi stanziati per la ricostruzione). Somme enormi sono già finiti nelle tasche delle imprese che finanziano il partito repubblicano. Le casse sono vuote dove trovare allora altri fondi per il finanziamento richiesto da Bush? Negli USA la forbice tra ricchi e poveri si è di molto ingrandita. gran parte delle tasse dei ricchi sono state ridotte, oggi pagano ora molto meno di prima, ma sono stati anche tagliati i fondi ai servizi sociali per i poveri.
Chi, allora, paga per questa guerra? Sono i poveri che sono andati in Iraq a combattere e a farsi uccidere (ricordate le prima prigioniera americana che si era arruolata perché senza lavoro e madre di due bambini?). Sono i poveri delle città e della provincia americane, abbandonati a se stessi. Sono i poveri di tutto il mondo e siamo anche noi, che non siamo ricchi, perché per finanziare questa guerra l’America dovrà fare consistenti debiti che, se non potranno essere onorati provocheranno fallimenti e recessione, una situazione economica disastrosa nella quale sarà coinvolta tutta l’economia mondiale.

 

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