Pubblicato su Politica Domani Num 25 - Maggio 2003

Economia
Pensare alto
Da un’intervista a Marco Vitale, economista

A Cura di Maria Mezzina

“Gli imprenditori italiani sono sempre bene accetti da noi perché portano il loro saper fare senza rappresentare niente e nessuno se non se stessi, senza nessuna pretesa geopolitica. Con loro è sempre possibile to play equal”.
Così ha detto a Marco Vitale un ambasciatore di un grande paese dell’Est.

In un’intervista a Vita e Pensiero (Università Cattolica), il grande economista italiano, che ha imparato a conoscere l’Italia e gran parte del mondo “sul sellino della bicicletta” parlando cioè con la gente, espone il suo pensiero sull’attuale situazione del capitalismo italiano.
Ricorda il periodo aureo del «grande capitalismo italiano e cattolico dei comuni e dei mercanti fiorentini, il grande capitalismo laico del 1300 milanese, il grande e saggio capitalismo mercantile e di grande potenza di Venezia» e il contributo dato allo sviluppo economico, civile e sociale nel mondo e nell’Italia dal lavoro e dalle capacità degli imprenditori italiani.
Vitale è ottimista. Fra la crisi del capitalismo “violento e piratesco” americano e del capitalismo “imbalsamato” tedesco «sembra aprirsi il varco per un capitalismo che, pur radicato solidamente nel mercato e nel dinamismo sociale, recuperi valori e comportamenti di responsabilità, di rispetto di principi di civile convivenza, di competizione severa ma non esasperata, di un diverso e migliore equilibrio tra il ruolo del saper fare e il ruolo della finanza». È sbagliato, afferma Vitale, «far coincidere la crisi della Fiat e di Mediobanca con un “apparente declino dell’economia italiana”. L’economia italiana è forte, diversificata, vitale, non in declino … La crisi della Fiat … è una crisi di arroganza imperiale degli Agnelli, di cattivo management, di scelte strategiche e operative sbagliatissime. La vera notizia è come Torino abbia, questa volta, reagito alla crisi. Gli indici dell’occupazione e dello sviluppo di nuove imprese non legate al settore automobilistico, sono ottimi. Torino non è più una “company town”; e questa è un’eccellente notizia». Anche la crisi di Mediobanca era una crisi annunciata. La novità, e la forza, del sistema capitalistico italiano sta nel fatto che la crisi dei grandi colossi non è più in grado di mettere in difficoltà il sistema produttivo italiano.
La tendenza a controllare l’economia del paese nei “salotti buoni” è stata sconfitta dal lavoro tenace e intelligente di tanti imprenditori. Essi hanno ridisegnato il modo italiano di fare impresa, « anche se le tendenze a ricreare nuovi salotti buoni sono già percepibili».
«Purtroppo è nato o rinato un nuovo ceto di governo che ricorda i democristiani degli anni ’60, per i quali la politica è la via più breve per assumere posizioni di potere nell’economia. Il governo di Berlusconi, in questo stimolato, affiancato e anzi spesso preceduto dai suoi alleati di AN e della Lega, è un governo, in economia, sostanzialmente illiberale e statalista. È difficile immaginare che i processi di privatizzazione e di new economy possano riprendere senza una riflessione critica profonda ed un deciso cambio di rotta da parte dell’attuale leadership di governo».
L’idea di affidare all’intervento del governo la soluzione di tante situazioni di crisi, a cominciare dalla Fiat, con una compartecipazione nella proprietà è stata subito messa da parte. Non solo perché anacronistica (un ritorno al collettivismo di tipico stampo marxista), ma perché impraticabile: «Un sistema pubblico la cui parola d’ordine è diventata: “non ci sono soldi” (per le scuole, per gli ospedali, per i musei, per costruire case per i giovani e per i lavoratori immigrati) come può ipotizzare di trovare i miliardi di euro necessari per questi interventi nelle imprese? Il governo deve impegnarsi per ordinamenti societari e finanziari aggiornati e affidabili (come, in parte, ha fatto con la riforma del diritto societario) e per tenere aperti tutti i canali d’integrazione internazionale; deve regolamentare in modo forte ed appropriato gli ex monopoli pubblici privatizzati, contenendone lo strapotere (Enel, Autostrade), deve convincere la Borsa ad introdurre regolamentazioni fortemente diversificate e semplificate per le imprese quotate a ristretta base azionaria e di minori dimensioni rispetto alle poche grandi “public companies” ed a quelle di grandi dimensioni, per invertire la pericolosa tendenza al “delisting” delle imprese medie; deve invertire la rotta per il Mezzogiorno, dove il ritorno alla finanza assistenziale ed all’intervento straordinario sta facendo abortire quel promettente risveglio produttivo che aveva caratterizzato il Sud negli ultimi sei anni; deve stimolare università e ricerca e rapporti più stretti tra queste e le imprese. Per il resto deve lasciar fare al mercato, respingendo le fortissime tendenze assistenziali e di intervento proprietario che sta nutrendo nel suo seno».
È questo probabilmente il concetto di “democrazia economica” a cui pensa Vitale quando afferma «Credo che la democrazia economica sia un concetto più ampio di quello della tutela dei piccoli azionisti. In questo senso più ampio vi è un enorme lavoro da fare in Italia, per raggiungere un livello accettabile di democrazia economica, sia sul piano concettuale che operativo».
Rigidità del mercato del lavoro. Uno dei punti su quali governo, confindustria, sindacati e lavoratori più hanno speso in energia e tensioni. «Il mercato del lavoro italiano è uno dei più flessibili in Europa, certamente molto più flessibile che in Francia e in Germania», afferma senza mezzi termini Vitale; e sulla qualità del lavoro aggiunge: «Non credo che vi sia un grave gap di formazione dei dipendenti delle imprese italiane. Sono in atto dei meccanismi di “training on the field” che funzionano bene, se è vero che nei confronti reali che si svolgono all’interno del mondo delle imprese, i dipendenti italiani raramente sono in difficoltà ».
E, allora, cosa è che frena l’economia italiana? «La pubblica amministrazione è, in genere, inefficiente o, meglio, ricattatrice e poco interessata allo sviluppo del Paese. Questo rappresenta un peso importante sulla competitività italiana … Resta una debolezza sul fronte dell’innovazione; una debolissima rete di ricerca e di collegamenti tra imprese e mondo della ricerca; resta un eccesso di provincialismo nelle nostre imprese e una certa superficialità nell’affrontare il processo di internazionalizzazione. Resta soprattutto una scarsa consapevolezza del proprio ruolo e del proprio grande potenziale».
Ce la farà l’Italia? Vitale ne è convinto ma pone delle condizioni, condizioni “alte” ma possibili perché connaturate con lo spirito e la cultura degli italiani: «L’Italia ed il capitalismo italiano hanno soprattutto bisogno di liberarsi dalla sindrome dell’italietta piccola e perdente che è nata con l’emergere dello Stato nazionale, 143 anni fa, e rituffarsi nel grande mare della civiltà italiana che, da mille anni, feconda il mondo con i suoi artisti, architetti, ingegneri, costruttori, teatranti,sarti, artigiani, musicisti,mercanti, imprenditori, avventurieri. L’era della globalizzazione delle cannoniere, aperta dagli USA, apre spiragli formidabili per la globalizzazione del lavoro e del capitalismo imprenditoriale, dove gli italiani hanno moltissimo da dire e da dare, per il capitalismo della speranza».

 

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