Pubblicato su Politica Domani Num 23 - Marzo 2003

Israele
Carri armati contro l'economia
La povertà è in crescita, e la guerra continua

Maria Mezzina

Uno dei punti cardini del programma di governo presentato nel discorso di insediamento di Sharon (27 febbraio scorso) è stato l'economia. Lo Stato di Israele è impegnato, in una guerra senza fine tesa a difendere i propri confini dalle minacce degli Stati confinanti, a proteggere gli insediamenti dei coloni all'interno del territorio palestinese, e a combattere il terrorismo interno. Le spese militari, pur essendo sempre state sostenute in parte (consistente) dai contributi degli israeliani all'estero, specie negli USA, e dal governo americano (Israele ha ricevuto e continua a ricevere importanti finanziamenti USA, oltre alla fornitura di armi, mezzi bellici, ultimi fra questi gli elicotteri apache e tecnologia militare), hanno sempre divorato una parte molto consistente del bilancio statale. Ora però la situazione politico-economica del paese si sta deteriorando e gli Stati Uniti, dove l'economia sta conoscendo un periodo di stasi (che nessuno vuole ancora chiamare recessione), aggravata dal crescente impegno militare degli Stati Uniti su più fronti (in Medioriente, nel Pacifico, in Europa, in Cina), hanno ridotto il loro impegno economico verso Israele. È in atto una brusca inversione di marcia sulla via del benessere di questo paese che, nonostante tutte le difficoltà ambientali (asprezza del territorio, minacce esterne, una popolazione giovane proveniente da tutte le parti del mondo) in poco tempo è riuscito a raggiungere standard di vita paragonabili ai paesi più ricchi del pianeta. La povertà non è un fenomeno sconosciuto nello Stato di Israele. Stando a quanto dice Ran Melamer (direttore associato di Yedid, una ONG israeliana che si occupa di assistenza e sviluppo) in un'intervista (Haaretz, 28.02.03), aumenta l'incapacità delle famiglie di far fronte ai mutui contratti per l'acquisto della propria casa (+10%) e 1500 di esse, pari al 20% di quelle che si sono impegnate in un mutuo con le banche, hanno avuto la loro casa sequestrata dalla banca per insolvibilità. D'altra parte le banche stesse non riescono a recuperare il denaro concesso in prestito: il valore degli immobili è sceso vertiginosamente, fino al 30%, perché nessuno più è in grado o vuole investire in immobili, preoccupato com'è per la situazione economica e politica del paese.
Segni eloquenti del deterioramento dell'economia e dell'aumento di povertà sono l'aumento di richieste di sussidi per l'affitto di appartamenti e un'ultima polemica (tutta interna) che ha scatenato risentimenti e malumori anche all'interno del governo: è stato sospeso un sussidio di assistenza a favore delle madri nubili ma non un analogo sussidio destinato agli yeshivot, studenti universitari di teologia.
Alcune cifre sono indicative dello stato di deterioramento dell'economia israeliana: il turismo è diminuito dell'80%; sono minori, rispetto al previsto, le entrate fiscali; la disoccupazione ha raggiunto il 10%, ma nelle zone arabe arriva al 22% e nei territori palestinesi è al 26% (si parla qui di forza lavoro esclusivamente israeliana, i dati relativi alla situazione dei lavoratori palestinesi sono molto peggiori). L'economia ha subito una contrazione: il PIL è diminuito, - 7,2% (nel 2000 era aumentato, +6,4%). Il valore dello shekel (la moneta corrente israeliana) ha subito una svalutazione del 10% rispetto al dollaro USA. I tassi di interesse, che erano scesi dall'8% al 3,8%, stanno di nuovo risalendo. Le famiglie al di sotto del livello di povertà sono il 17,6% (dati ONU del 2000). Il fallimento delle industrie high tech su cui Israele aveva puntato (alcune erano quotate alla borsa di New York) dovuto al crollo del NASDAQ, è solo in parte causa del ripiegamento dell'economia, così come lo è il parziale disimpegno degli Stati Uniti. Alcuni economisti vedono nella cattiva congiuntura finanziaria mondiale, nella volontà di Israele di adattare la propria politica economica ai parametri di Maastricht e nel tentativo di favorire i cittadini più facoltosi e le imprese con agevolazioni e sgravi fiscali per evitare che capitali e industrie abbandonino il paese, le ragioni di questa caduta.
Certamente però una delle cause principali della regressione economica è il conflitto israelo-palestinese. Oltre ai costi - 2,8 miliardi di dollari l'anno -, esso è all'origine di situazioni che deprimono l'economia del paese. La guerra ha allontanato turisti e investitori stranieri. La gente non esce più per fare spese per la paura di di attentati. Sono aumentati gli incentivi ai coloni ebrei che vivono negli insediamenti (abusivi) di West Bank e nella striscia di Gaza. La leva obbligatoria di un mese l'anno, prevista fino a 50 anni, allontana dalle attività produttive gran parte degli uomini, quasi tutti padri di famiglia, suscitando tra l'altro risentimento nei confronti degli oltre 30.000 yeshivot che, oltre ad essere esenti dal servizio militare, ricevono dallo Stato (Ministero delle Religioni) un contributo finanziario. Le spese per la difesa sono aumentate enormemente a scapito di quelle per la salute, l'istruzione, il welfare e, naturalmente, sono le famiglie più povere a soffrirne.
Per uscire da una situazione così deprimente sono in molti a ritenere che un primo importante passo sia la ripresa del processo di pace. Ma fintanto che rullano i tamburi di guerra, all'interno come all'esterno, nel vicino Iraq, ambedue le riprese appaiono molto lontane.

 

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Num 23 Marzo 2003 | politicadomani.it