Pubblicato su Politica Domani Num 23 - Marzo 2003

I grandi del cinema
Alberto Sordi
Un volto, una voce, una poesia

Augusto Pallocca

Io lo conosco poco, Alberto Sordi.
Lo conosco poco, perché il cinema non mi ha mai appassionato.
Lo conosco poco, perché sono troppo giovane per averlo visto sul grande schermo, e perché la faccenda dell'home video, a casa mia, non ha mai avuto il successo e l'attenzione che forse meriterebbe.
Lo conosco poco, perché, generalmente, preferisco ridere nella vita e piangere davanti a un bel film.
Non credo di essere l'unico, non mi sento una mosca bianca, ma tutto questo parlare della sua scomparsa mi ha messo una voglia irrefrenabile di guardare ogni singolo minuto di pellicola dove sia inciso il suo rubicondo e scanzonato faccione. Vorrei osservare, bloccare il VHS per immortalare un fermo-immagine, se fosse necessario. Vorrei capire dove sta la forza, dove risiede la particolarissima dote di imprimersi nella mente di tante persone, collocandosi nella memoria di tutti, indistintamente, in quell'angolo che in maniera esclusiva si riserva ai bei ricordi. Poche ore fa, tuttavia, ho realizzato che sarebbe solo sterile ricerca divorare la filmografia completa dell' Albertone nazionale andando disperatamente a caccia di una risposta già dannatamente evidente.
Come spesso mi succede in qualche domenica alle porte della primavera, oggi sono andato all'Olimpico, in Curva Sud. In cuor mio, credo che nessun posto come quella sezione di stadio possa rispecchiare meglio l'indole popolare romana. Una popolarità genuina, sincera, schietta, simpaticamente volgare e salacemente insolente. La curva, oggi, non ha potuto dimenticare il suo Alberto. E allora applausi scroscianti, cori, occhi lucidi, persino un enorme telo dove era stampato un frame di "Un americano a Roma". Poi, quando alcuni ultras ricordavano una celeberrima battuta del "Marchese del Grillo" con un sagace striscione apparso in tutta la sua amara ilarità a pochi minuti dall'inizio della partita, ho sentito intorno a me molti tifosi domandarsi il significato, e persino la provenienza di quella frase. Gli stessi tifosi che si professano orgogliosamente romani. Gli stessi romani, che, pochi minuti prima, avevano salutato Sordi con sentita commozione, cingendolo con un ultimo, immaginario abbraccio. Lo stesso abbraccio fatto di battute ripetute per sentito dire, di agrodolci e affettuosi cori da stadio, di battute dette tra un forzaroma e un altro, e che tranquillamente, in altra sede e in altri tempi, avrebbero potuto funzionare come parte del copione di un suo film.
Ed è qui la forza, qui la dote, qui la risposta.
La gente ha una foto di Sordi in testa, e la conserva gelosamente, oltre ogni suo merito cinematografico. È la foto di un attore, di un poeta, certo. Ma anche di un uomo a cui mai è sfuggita la sofisticata ironia dei romani, l'esilarante gioco del vizio, il fascino ingenuo dell'Italietta degli anni '60. E i suoi innumerevoli estimatori si sentono ancora rappresentati, e dunque divertiti, da quelle sue scanzonate provocazioni. Divertiti (e colpiti) da quelle situazioni che ricordano vagamente di aver visto e sentito nei suoi film, e che invece vivono spesso in prima persona. Sordi è alleato del suo pubblico, ed il pubblico, se diventa suo suddito, lo fa spontaneamente. La platea che ora lo piange sa bene di questa alleanza. Sa di come Sordi le abbia regalato dei sorrisi attingendo a piene mani da ciò che è proprio di molti italiani: la comicità quasi innata che sta nella capacità di ironizzare titanicamente sulle piccolezze della propria vita. E, in fondo, la platea piange per questo. Perché non riuscirà a rimpiazzare chi, come Sordi, aveva preso in prestito la voce dell'uomo comune. Chi, come Albertone, aveva reso quella voce poesia.

 

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