Pubblicato su Politica Domani Num 22 - Febbraio 2003

SFSP
Guerra, parliamone insieme
Tavola rotonda con quattro corrispondenti di guerra

Maria Mezzina

Guerra, parliamone insieme. È questo in sintesi il senso della bella serata di giovedì 16 gennaio alla SFSP con quattro giornalisti corrispondenti di guerra: Ferdinando Pellegrini (GrRai), Vittorio Dell'Uva (il Mattino di Napoli), Claudio Monici (Avvenire) e Vladimiro Odinzoff (la Repubblica).
Si entra subito in argomento: questa guerra è proprio inevitabile?
Se dietro le motivazioni ufficiali della guerra (Saddam è un pericolo per l'umanità con le sue armi nucleari e di distruzione di massa ndr) non ci fosse il fatto che l'Iraq è un importante serbatoio di petrolio, la guerra potrebbe essere evitata. Questa condizione irachena e la necessità di trovare un nemico da abbattere per ristabilire "sicurezza" e "pace" e "libertà duratura", dopo la campagna fallimentare contro Osama Ben Laden e il Mullah Omar, secondo Dell'Uva, rendono la guerra pressoché inevitabile. Unica possibilità, forse, per evitare la guerra sarebbe una contrapposizione politica forte alle scelte dell'esecutivo americano.
Non è di questo avviso Vladimiro Odinzoff il quale è "stranamente convinto che non ci sarà la guerra contro l'Iraq". Il vecchio giornalista va oltre e si pone una domanda importante: supponiamo che gli americani arrivino a Baghdad, perché ci arriveranno, e dopo? Già nel 1992, al termine della prima guerra del Golfo, erano stati preparati piani per arrivare fino a Baghdad. Ma non se ne fece nulla perché anche allora venne fuori la stessa domanda. La caduta di Saddam avrebbe creato un grosso vuoto politico di cui avrebbero potuto approfittare Iran, Siria e Arabia Saudita. Gli Usa si sono preoccupati allora, come oggi, di garantire l'integrità territoriale dell'Iraq (anche se questo viene di fatto smentito dalla già proclamata indipendenza del Kurdistan iracheno). La stessa esistenza in vita di Saddam, indipendentemente da un suo possibile esilio, sarebbe un grosso problema, vista l'inconsistenza di una qualsiasi opposizione. Prima di un qualunque intervento, conclude Odinzoff, gli americani dovranno chiarire a se stessi che cosa fare dopo, per non rimanere incastrati in una situazione dalla quale sarebbe molto difficile uscire. Pellegrini parte da un'analisi del modo di pensare e di essere americano: gli americani si sono impegnati già da tempo, ben prima del fatidico 11settembre, ad estendere la loro area di influenza nelle zone lasciate libere dalla caduta del sistema sovietico. In preparazione di questa guerra hanno speso centinaia di milioni di dollari; ora c'è bisogno che i loro investimenti diano i frutti: in immagine o in controllo di territori. Questa guerra è diventata una sorta di "saga famigliare" e il tempo è propizio perché non c'è più l'Unione Sovietica e il pericolo Cina è ancora remoto. Gli USA vogliono eliminare l'intero regime iracheno, non solo Saddam, e questo è possibile solo con un'azione violenta.
Gli Americani vogliono l'Iraq perché i rapporti con l'Arabia Saudita non sono più così amichevoli e gli USA hanno bisogno di ristabilire in medioriente una presenza strategica che non hanno più, dice Monici. Hanno cominciato con l'Afghanistan, pesantemente occupato dalle truppe americane. Ma Claudio Monici è preoccupato anche per altre ragioni: l'Islam vede venire dall'occidente una nuova minaccia e si è raccolto accanto a sé; in Corea del Nord monta il pericolo atomico; una parte del pianeta è minacciata dal riarmo atomico di questa nazione alle spalle della quale c'è il Giappone e la Cina. La guerra purtroppo ci sarà, crede Monici, anche perché è necessario sperimentare dal vero e non solo nei laboratori o con simulazioni tutte quelle nuove armi e quei nuovi radar che dal 1991 sono stati messi a punto. Probabilmente accadrà come nel '91 quando, dopo 40 giorni di combattimenti, la resistenza irachena si è completamente sciolta. E dopo? La domanda di Odinzoff ritorna prepotente.
La provocazione, l'assuefazione, il comportamento anti-umano: "noi avevamo dell'acqua ma c'erano anche altre 350 mila persone a 50 metri da noi". Si apre il dibattito e Ferdinando Pellegrini lancia una provocazione: noi giornalisti siamo abituati a vivere la guerra dalla parte di chi la racconta; noi scriviamo le guerre, ma voi, opinione pubblica, siete contenti di come vi vengono raccontate, siete soddisfatti della quantità di informazione che vi viene data? Ho la sensazione, dice Monici, che l'opinione pubblica sia molto lontana dalla realtà che noi raccontiamo e che si sta perdendo il senso di cosa sia la guerra, con il suo carico di disperazione, di famiglie distrutte. L'ultima guerra raccontata bene è stata quella del Vietnam, afferma Odinzoff, dopo di allora gli Americani hanno capito che la guerra non va raccontata. E così nel '91 in Kwait i giornalisti venivano accompagnati in gruppi di sette nei vari luoghi per raccontare quello che dovevano diligentemente raccontare. Dell'Uva è meno severo: i giornalisti si accorgono subito se le informazioni sono pilotate e correttamente cercano di liberarsi di queste "guide".

Il pubblico non si fa pregare e partecipa con competenza e passione al dibattito.
Ecco, fra i tanti interventi, solo due.
Simona va dritta al cuore dei nostri cronisti: "La guerra, che pizza, sempre questa guerra. Se ne vedono tante, se ne sente così tanto parlare … viene l'assuefazione". Assuefazione è il termine che più ha ferito i giornalisti perché di fronte all'assuefazione poco importa come vengono raccontate le guerre e neanche importa più se quello che viene raccontato è bene o male. Delle tante guerre che si raccontano, tante altre sono quelle che non si raccontano, le guerre dimenticate. È l'opinione pubblica che deve cambiare, quella stessa opinione pubblica che dice ai giornalisti di guerra a proposito delle violenze di cui sono testimoni "tanto voi ci siete abituati", senza sapere che non ci si abitua mai ai morti per strada e alla violenza vera che non è quella del cinema o della televisione. L'assuefazione è la stanchezza morale di una società che ogni notte si corica sul cuscino del benessere, è la definizione di Monici. Mauro chiede se i giornalisti hanno mai assistito o si sono essi stessi resi protagonisti di episodi antiumani durante le guerre. Gli risponde Claudio Monici con una esperienza personale: "Durante un controesodo di 350 mila persone in Rwanda dovevamo andare con una macchina dall'altra parte a vedere cosa era successo. Come ogni mattina avevamo preso delle provviste: acqua, banane e biscotti. Andando in senso contrario a quella mare di gente, impieghiamo un'ora e mezzo a percorrere un chilometro, finché arriviamo in coda e troviamo i resti di quello che erano le 350 mila persone: moribondi, vecchi e bambini, piccolissimi, abbandonati per strada e, fra loro, una famiglia, un padre una madre e tre bambini. Il padre teneva uno dei figli per una spalla che cadeva giù, sfinito, giorni senza bere e senza mangiare, era destinato a morire. Ci siamo guardati negli occhi. Noi avevamo l'acqua ma c'erano anche altre 350 mila persone a 50 metri da noi e a tirar fuori un biscotto o una bottiglia si sarebbe creato il finimondo, non per noi, ma per la gente. L'unica cosa che abbiamo potuto fare è stato raccogliere un bambino, lo abbiamo messo in macchina e ce lo siamo portato via. C'erano altre persone incaricate di quell'esodo, ma non erano da quella parte, erano alla testa delle 350mila persone. Il giorno dopo hanno tentato di dare qualche aiuto: con dei carri fermi ai bordi di una strada molto stretta hanno lanciato acqua e biscotti in mezzo alla folla. Ci sono state decine di morti, calpestati."

 

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Num 22 Febbraio 2003 | politicadomani.it