Pubblicato su Politica Domani Num 21 - Gennaio 2003

Cosa è cambiato dopo l'11 settembre
Una nuova strategia per gli USA
Un nuovo ordine mondiale è in costruzione

Giorgio Innocenti

Lotta al terrorismo. Formula dal notevole potere evocativo. Potere che le deriva dalla relazione che la lega all'11 settembre, data assurta a spartiacque storico per la tragicità dell'evento che la fa ricordare e per il senso di vulnerabilità nel quale l'attentato alle due torri ha scaraventato l'occidente, il tutto amplificato dell'ossessiva riproduzione mediatica.
L'opinione pubblica chiede sicurezza, chiede azioni visibili che la garantiscano. La lotta al terrorismo diviene il simulacro della sicurezza. Le azioni (spesso repressive) che la dovrebbero concretare sono ben accette ai più perché segno tangibile dell'impegno contro il nemico (o meglio, anche qui, il suo simulacro). Poco importa che tali interventi rispondano a ben altre logiche che alla difesa della collettività: ciò che conta è come i cittadini li percepiscono. Ed è chiaramente più facile presentare come impegno manifesto una guerra contro un qualche tiranno piuttosto che interventi tesi a migliorare le condizioni di vita nei paesi dove la disperazione offre terreno dissodato al seme della violenza. Lotta al terrorismo diventa la parola magica che zittisce ogni obiezione, la risposta che rende vana ogni domanda. Vittime civili in Afghanistan? Lotta al terrorismo! Diritto internazionale calpestato? Lotta al terrorismo!
Ad ogni capo del mondo la parola magica è pronunciata per far passare provvedimenti altrimenti difficilmente digeribili dalla comunità internazionale: in Israele, per interventi sempre più duri contro la nuova intifada; in Cecenia, per dare mano libera a Mosca nella repressione dell'indipendentismo e perfino in Spagna dove il nuovo clima ha permesso l'approvazione della durissima "Ley de partidos".
Tra quanti hanno tratto giovamento dai mutamenti post-11 settembre, il governo degli Stati Uniti d'America è quello che ha raccolto i frutti più evidenti. Sul piano interno l'amministrazione Bush - reduce da un'elezione dovuta a riconosciuti errori di conteggio, con un presidente che la stampa internazionale giudicava senza tanti giri di parole un "cretino" e che godeva di un consenso mai così scarso all'indomani di un'elezione - si è trovata dopo quei provvidenziali attentati in una situazione ottimale. Nella prova il paese si è unito attorno al simbolo della nazione: il presidente. Ogni voce fuori dal coro è stata facilmente isolata e tacciata d'antipatriottismo. Bush ha raggiunto nei sondaggi percentuali di consenso vicine al 95%: altro che Bulgaria!
Sul piano internazionale la ferita inflitta agli USA ha dato a quest'ultimi un margine di manovra amplissimo. Il disastro delle due torri sembrava essere così smisurato da giustificare ogni tipo di reazione. Ciò ha permesso al paese nord-americano di far accogliere all'opinione pubblica mondiale un cambio di strategia in senso sempre più aggressivo ed imperialistico.
Ipotizzare un nesso causale tra l'11 settembre ed il mutare della politica estera USA (e soprattutto stabilire il verso di questa relazione) va oltre le mie intenzioni (e le mie possibilità). Vero è che, se pure questo novo corso è iniziato prima dell'autunno 2001, da quel maledetto martedì esso è divenuto sempre più esplicito e disinvolto.
Per tutti gli anni novanta gli USA hanno dato l'impressione di non riuscire ad adattarsi al nuovo assetto mondiale che sembrava costruirsi proprio attorno ad essi. Venuto meno il blocco comunista tutte le strutture create per contrapporsi ad esso sono risultate obsolete. La politica estera statunitense, improntata alla "spinta" contro il nemico russo, venuto meno questi, si è trovata sbilanciata in avanti, incapace di riacquisire un equilibrio. Gli USA hanno mostrato difficoltà ad interpretare con disinvoltura il ruolo di potenza egemone in un nuovo assetto monopolare.
Dall'11 settembre gli Stati Uniti sembrano aver preso coscienza del loro ruolo. Un ruolo stabilito principalmente dal soverchiante predominio militare e dall'assenza di un potere politico sovranazionale adeguato (che detenga anche l'uso della forza). Rimasti unica superpotenza, gli USA si apprestano ad assumere a pieno la carica di garanti della giustizia e della pace. Ruolo che l'ONU non può ricoprire, poiché incapace di costringere gli stati a rispettare le proprie risoluzioni. L'ONU deve necessariamente appoggiarsi a chi ha il predominio assoluto (anche se non il monopolio) dell'uso della forza: gli USA appunto.
Accettato questo dato di fatto, per realizzare una società mondiale, pacificata sotto la propria guida, gli Stati Uniti debbono realizzare a mio avviso due condizioni: l'indipendenza energetica e l'individuazione di un nemico comune da combattere. È esattamente ciò che stanno facendo.

 

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Num 21 Gennaio 2003 | politicadomani.it