Pubblicato su Politica Domani Num 21 - Gennaio 2003

Il settore Radiotelevisivo in Italia
Poche leggi e tante sentenze
Oltre 55 anni di storia

Roberto Palladino

A differenza della stampa o dello spettacolo il settore radiotelevisivo italiano ha visto lo Stato porsi per un lungo periodo come unico gestore. L'impostazione iniziale di totale controllo sul mezzo radiofonico dato dal regime fascista, influenzò difatti gran parte della normativa anche nel primo periodo repubblicano. Risale al 1947 il primo decreto che stabilisce che sia il Ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni ad avere il controllo pressoché totale della radiofonia in Italia, dalla nomina dei dirigenti alle scelte artistiche. Con questo decreto entra per la prima volta in gioco anche il Parlamento, con la nascita della Commissione Parlamentare di Vigilanza, che aveva appunto il compito di vigilare sull'obiettività e l'imparzialità del mezzo radiotelevisivo, ma senza poteri diretti sul settore. È del 1952 il primo rinnovo della concessione in esclusiva delle frequenze alla neonata Rai, controllata totalmente dall'azienda di stato IRI. All'interno della nuova concessione si ribadisce la nomina del Governo, e non del Parlamento, del Consiglio di Amministrazione e la sottoposizione di tutta la programmazione all'approvazione del Ministero delle Poste, con possibilità di modifica da parte del Ministro degli Interni. Viene inoltre fissata al 5% la percentuale massima di pubblicità, e si conferma il canone di pagamento da parte del cittadino. Praticamente non cambia nulla rispetto a prima. Lo Stato concede l'utilizzo delle frequenze radio-televisive ad un'unica società controllata da un'azienda statale, l'IRI, con programmazione ed organismi dirigenti decisi dal governo. Insomma un vero e proprio megafono dell'esecutivo di turno. Nel 1954 iniziano le prime trasmissione della Rai e tutti capiscono immediatamente che "la radio con le immagini" ha un potere di suggestione sul pubblico come né radio né cinema hanno mai avuto. A questo punto entra in gioco la Corte Costituzionale con la prima di una lunga serie di sentenze su questo argomento. Nel 1960 viene emessa la prima sentenza della Corte che respinge le eccezioni di costituzionalità sulla gestione di un'unica azienda pubblica di tutte le frequenze radiotelevisive. La Corte decide di assegnare al mezzo radiotelevisivo una peculiarità che lo rende diverso dagli altri media, giustificando il monopolio pubblico una soluzione non ottimale, ma lecita di fronte al rischio che possa formarsi un oligopolio privato. Intanto la televisione italiana comincia ad avere una programmazione sempre più definita e a riscuotere sempre maggiore successo. Si svuotano i cinema ed il carosello diventa il nuovo cantastorie per i bambini così che ad un primo canale se ne aggiunge un secondo. Si arriva al 1974 e due nuove pronunce della Corte cominciano a cambiare le carte in tavola. Si ammette la possibilità che reti private possano ritrasmettere in Italia la programmazione di canali televisivi esteri e si autorizza la diffusione di servizi radiotelevisivi privati via cavo, seppur a livello locale. È una prima grande rivoluzione nel settore che prevede per la prima volta l'introduzione dei privati a garanzia di un maggiore pluralismo dell'informazione. Ma la Corte non si limita ad aprire ai privati, essa emana anche i famosi "sette comandamenti" che invitano, tra l'altro, il governo ad assegnare al Parlamento il compito di nominare gli organi dirigenti della Rai. E così, con la legge 103 del 1975, il Parlamento italiano, oltre a consentire nei modi spiegati l'inserimento dei privati, amplia il potere della Commissione Bicamerale di Vigilanza che, oltre ad avere maggiori poteri di indirizzo, nomina i 3/5 del Consiglio di Amministrazione della Rai. Si tratta di un primo importante successo per la maggiore indipendenza dell'azienda dal governo. Passa solo un anno, siamo nel 1976, e una nuova sentenza della Corte Costituzionale sancisce la fine del monopolio pubblico nel settore radiotelevisivo locale, autorizzando la trasmissione dei privati, in analogia a quanto già previsto per la diffusione via cavo. Una sentenza storica dà inizio alla nascita delle cosiddette radio libere e delle prime televisioni private. Si arriva così al 1981, con la sentenza 148 che pone fine definitivamente alla riserva statale sulla diffusione radiotelevisiva nazionale. Lo Stato, sconfitto dalle sentenze della Corte, emana nel 1985 una disciplina transitoria che autorizza la trasmissione dei privati su tutta l'Italia, aggiungendo però alcuni obblighi già in vigore per la televisione pubblica, tra cui il tetto massimo di pubblicità e la trasmissione di almeno il 25% di film italiani. Il 1990 vede arrivare la prima grande riforma del settore: la legge nota come "legge Mammì". La nuova legge definisce, tra l'altro, l'obiettività e l'imparzialità dell'informazione come principi comuni al pubblico ed al privato; stabilisce una nuova ripartizione ed assegnazione delle frequenze radiotelevisive; descrive accuratamente i criteri per il rilascio delle concessioni; disciplina durate e limiti della pubblicità; profila una prima normativa antitrust per evitare concentrazioni nel settore; istituisce una prima Autorità di garanzia sul settore radiotelevisivo con poteri di controllo e di sanzione. Dal 1990 ad oggi, il Parlamento torna più volte a disciplinare il settore, specie in seguito all'applicazione delle direttive della comunità europea. Vengono così disciplinate in maniera più approfondita la televisione satellitare (d.lgs del 1991 e legge n. 249 del 1997), la pubblicità televisiva e le sponsorizzazioni (legge n.650 del 1996 e legge n. 122 del 1998), la comunicazione politica (legge n.81 del 1993 e legge n.28 del 2000). Non c'è più stata, fino ad oggi, una legge quadro del settore come la legge Mammì. Solo quest'anno verrà infatti discusso in Parlamento il disegno di legge del Ministro per la Comunicazione Gasparri che disciplinerà tutto il settore. Una nuova legge che potrebbe sancire l'inizio della privatizzazione della Rai.

 

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Num 21 Gennaio 2003 | politicadomani.it