Pubblicato su Politica Domani Num 21 - Gennaio 2003

Carceri
In nome della sicurezza
Un'ossessione che umilia la dignità umana

Angelo Bottaro

Alla data del 31 ottobre 2002 i detenuti rinchiusi nelle 205 "case circondariali" italiane sono risultati 56.773, circa la metà dei quali stranieri: un numero decisamente elevato se raffrontato alla capienza "regolamentare" di 41.730 posti. 15.043 detenuti sono di troppo e devono arrangiarsi, ad esempio in 13 in uno spazio sufficiente per 4 (Secondigliano e Ucciardone), oppure illuminati dal neon anche di giorno perché la cella è priva di finestre (Savona).
"Merita attenzione la situazione delle carceri, nelle quali i detenuti vivono spesso in condizioni di penoso sovraffollamento". Il Papa ha chiesto anche un atto di clemenza, ma è rimasto inascoltato.
Prima di tutto viene la sicurezza, che va garantita ad ogni costo, in quanto elemento essenziale e vitale all'assetto e allo sviluppo economico della società moderna, ossessivamente orientata al consumo e al mantenimento del proprio benessere.
E il carcere certamente risulta funzionale alla crescente domanda di sicurezza, perché, senza apparenti implicazioni, risolve il problema alla radice, togliendo indiscriminatamente dalla circolazione chi per qualsiasi motivo abbia turbato l'ordine e la tranquillità sociale.
La pena, però, non dovrebbe limitarsi solo a questo: le norme costituzionali e lo stesso ordinamento penitenziario tendono soprattutto al recupero e alla elevazione del condannato in quanto persona. La legittima preoccupazione di tutela e di sicurezza della società non è per nulla in contrasto con il rispetto e con la promozione della dignità del condannato e con il diritto ad una difesa efficace e ad un processo rapido ed equo. Se questo obiettivo resta in massima parte disatteso non può parlarsi di giustizia, ma di punizione, formalmente ineccepibile, ma non di meno sterile. La realtà ancora oggi mostra un carcere "dove entri lucertola e diventi coccodrillo", un carcere da riempire e da blindare e spesso come unico deterrente della società lesa ed indignata verso chi trasgredisce la legge, infrangendo regole spesso incomprensibili e difficili da rispettare.
Il condannato non è persona da recuperare, con la quale costruire un progetto, stringere una relazione umana, ma un individuo che deve pagare fino in fondo il male commesso, con l'applicazione burocratica, talvolta spietata delle procedure e dei regolamenti. Al recluso così non resta alternativa ad una esistenza scialba e vuota, alla attesa interminabile e spesso disperata.
Il bisogno di sicurezza, laddove non integrato per il condannato da forme alternative alla reclusione, da un progetto di vita e da una realistica prospettiva di riscatto rischia di tradursi da parte della società e delle istituzioni in un atto di intransigenza e di indifferenza, di chiusura, di mancanza di volontà o peggio di capacità a rimuovere le cause del malessere morale e materiale e della emarginazione, che sono alla origine della violenza e della trasgressione.
Per prendere coscienza del male, per assumere responsabilità, per tornare a partecipare consapevolmente alla vita, per cogliere utilmente segni e opportunità la esperienza del carcere non può non essere accompagnata da una speranza e questa ha assoluto bisogno di professionalità, di efficace comunicazione, di spazi e di valide opportunità di lavoro, di volti che si rincontrano, di solidarietà, di fiducia e soprattutto di perdono. Said Mohamed in "Giudice di questo tempo" con parole semplici e mirabili ci ricorda che senza quel perdono il recluso sarà definitivamente perduto:
"Era seduta e teneva il mio fascicolo tra le mani. Guardava la mia fortuna che non c'è. Ha detto: bambino mio non preoccuparti, il carcere è il tuo destino. Sono anni che faccio il giudice e non ho mai visto una tristezza come la tua: è tuo destino camminare in un carcere senza timore. La tua vita sarà sempre in salita, senza discesa. È tuo destino stare in carcere tra acqua e fuoco malgrado il male che senti e i tuoi precedenti, malgrado la tristezza di giorno e di notte, malgrado la solitudine e le turbolenze. La libertà rimarrà il grande sogno. Bambino mio la tua vita sarà piena di sofferenze e il carcere sarà una parte di te. Il tuo cielo è nuvoloso e la tua strada è chiusa: la tua vita è un incubo assieme ad un sogno profondo. Chi cercherà di avere la libertà, chi cercherà di avvicinarsi alla verità, chi cercherà di rompere le catene è un uomo perso, è un uomo perso, è un uomo perso…"

 

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Num 21 Gennaio 2003 | politicadomani.it