Pubblicato su Politica Domani Num 19 - Novembre 2002

Musica
Lo chiamavano Bird
Jazz e dintorni

Augusto Pallocca

La critica musicale non è mai d'accordo su niente. Chi per alcuni è un genio, per gli altri un idiota. Chi per molti è un artista, per altrettanti è un mercante d'arte. Ma esiste una ristrettissima cerchia di personaggi che mettono d'accordo tutti. Critica,pubblico, addetti ai lavori. Patrizi e plebei. Charlie Parker è uno di questi. Nato nel 1920, morto solo 35 anni dopo per un infarto scaturito dalla sua invincibile tossicodipendenza, Parker è di certo il sassofonista più celebre e osannato dagli amanti del jazz. Dagli amanti della musica.
La sua carriera inizia presto, prestissimo. A 21 anni già le prime incisioni, e poi nel 1945 l' incontro con Dizzy Gillespie. Charlie produce una fiamma intensa, ma brucia il doppio più veloce. In due anni il sassofonista di Kansas City attraversa un inferno di delusioni, di scritture sfortunate, di denaro che manca e dosi che non bastano per salvarlo dalle sue crisi d'astinenza. E' così che nel 1947, ormai schiavo degli stupefacenti, Parker viene ricoverato in ospedale. La sua degenza durerà sette lunghissimi mesi al termine dei quali il jazzista, fatto ritorno a New York, vedrà accrescere enormemente la sua fama. E' in questo periodo che le sue composizioni e la sua straordinaria abilità improvvisativa vengono consacrate e consegnate all 'olimpo della musica di tutti i tempi. Lavora con Gillespie, tiene a battesimo un giovanissimo Miles Davis, vede avvicendarsi tra le file dei suoi gruppi musicisti che poi esploderanno prepotentemente negli anni '60: tra questi, i batteristi Max Roach e Roy Haynes. Il mondo ormai lo conosce come Bird, perchè nessuno come lui aveva fatto volare la musica così in alto. Si esibisce a Parigi, e in Svezia, e in suo onore viene aperto nel cuore di New York il Birdland, un locale che porta addirittura il suo nome. E' già un mito quando decede nel 1955, è questo è fuori di dubbio, ma non è questa la sua rivoluzione. La sua rivoluzione sta nella musica, in quella musica afroamericana che prima di lui era legata da una parte alla tradizione e dall'altra al mondo del puro intrattenimento, invischiata spesso in stereotipi difficili da scardinare. Bird porta tutto ad un altro livello. Il suo jazz è veloce come le sue mani sui tasti del contralto, cromatico e dissonante come la sua vita. I suoi temi originali come la sua personalità, e la sua esecuzione degli standard imprevedibile. Quello che molti notano di lui è la sua capacità di entrare nello strumento, di renderlo parte del suo corpo. Come dire, avere per la musica la stessa sensibilità e reattività che si ha nel muovere una mano o nell'annuire con il capo. Le sue composizioni restano senza rughe a distanza di un cinquantennio, ancora sconvolgenti, ancora all'avanguardia. Nessuno che suoni jazz può esimersi dal conoscere il suo stile inconfondibile, e i più non possono fare a meno di imitarlo. Oltre che un genio, un maestro. Uno che prima entra nei libri di storia e poi li scrive.
Nel 1964 lo scrittore argentino Julio Cortazar gli dedica "Il persecutore", breve romanzo che ripercorre e descrive più o meno fedelmente l'ultima parte della vita di Parker. Acuto e attento nello scandagliare l'intrigante psiche parkeriana, Cortazar descrive Bird come "…un personaggio che non pensa. Un uomo che non abbia pensieri, ma solo sensazioni, che ,nella sua musica, nei suoi amori, nei suoi vizi, nella sua infelicità, sempre e dovunque, non agisca che al livello delle sensazioni". Frasi di indicibile veridicità, quelle di Cortazar, che trovano coronamento e rappresentazione in una delle affermazioni più contraddittorie proferite dal Parker raccontato dal suo libro. "Questo lo sto suonando domani", dice a un certo punto il suo Bird, e lascia a bocca aperta tutti. Sfida ancora il tempo e scommette di batterlo. E continua a vincere.

 

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