Pubblicato su Politica Domani Num 13 - Aprile 2002

Intervista a SERGE LATOUCHE

di Giorgio Innocenti

(intervista fatta in marzo 2002) Versione Integrale

Molti economisti sostengono che un mercato globale, per non implodere, deve crescere almeno del 3% annuo. Può spiegarci questo meccanismo?
Bene, penso che questo sarebbe meglio chiederlo ad un economista ortodosso, perché io, come lei sa, sono un economista eterodosso, assolutamente critico nei confronti dell'economia classica. Il sistema capitalista in cui viviamo ha un funzionamento simile a chi va in bicicletta, che deve continuamente pedalare per non cadere per terra. Il sistema deve effettivamente vivere domani per sopravvivere oggi; nel senso che ha bisogno essenziale di una domanda, di anticipare la domanda per mezzo del credito, per far si che la gente consumi sempre più di quello che ha. L'indebitamento delle famiglie americane è di più di un anno, vale a dire che la gente anticipa già i redditi di un anno. Questo fenomeno si diffonde sempre più. Se le prospettive di crescita diminuiscono, allora è la catastrofe e scoppia la crisi. Questo è il meccanismo, in modo brutale e molto schematico.

E' "sostenibile", e quali conseguenze determina, questo sviluppo illimitato dell'economia?
Evidentemente questo sistema è insostenibile. Prima di tutto economicamente, perché la crisi è sempre in agguato nel momento in cui il sistema si ferma. C'è stata la crisi asiatica nell'87, diverse piccole crisi; fino ad oggi si è riusciti ad evitare la grande crisi ma non si fa che rimandare la scadenza. D'altro canto, ciò che maggiormente determina l'insostenibilità del sistema è che questa crescita è incredibilmente distruttrice dell'ambiente. Contrariamente a quanto dice il presidente Bush -secondo il quale la crescita non è il problema, ma il rimedio- io ritengo che sia esattamente il contrario: la crescita è il problema e il rimedio è di cambiare completamente il sistema di funzionamento.

Lei ha sostenuto che le Organizzazioni Non Governative, animate da sentimenti altruistici, operano in Africa delle ingerenze dannose e contribuiscono ad esportare il modello di sviluppo del nord.Quali interventi sono allora leciti nel sud del mondo nel lungo, ma anche nel breve periodo?
Le possibilità d'azione sono numerose. La questione non è di essere in pace con la coscienza aiutando "i poveri Africani". È necessario impedire ai predatori che sono fra noi di continuare a distruggere l'Africa. Ad esempio, io cito sempre questo aneddoto: qualche anno fa, quando andavo a Saint Louis in Senegal, vedevo le piroghe dei pescatori ritornare completamente cariche di pesci. In questi ultimi anni invece vedo le piroghe rientrare con un carico via via più esiguo. Perché questo? Perché si vedono in lontananza dei pescherecci bretoni, italiani, baschi, russi, giapponesi e via dicendo, che battono i fondali marini; ciò provoca la fame nella popolazione africana -che non ha più cibo a sufficienza- e rovina la gente che vive di quel lavoro. Ciò è vero per la pesca, come per molte altre risorse. Pensiamo, ad esempio, che l'Europa (e non solo gli Stati Uniti) -stabilendo che il cioccolato può contenere fino al 15% di altri grassi vegetali, oltre al burro di cacao- ha privato paesi come il Ghana, la Costa D'Avorio (che trovano la loro maggiore risorsa nell'esportazione del cacao) di molti miliardi di dollari. Mentre per i fabbricanti di cioccolato e per i consumatori ciò rappresenta una differenza di pochi centesimi ogni tavoletta, per gli africani, privati di queste migliaia di dollari, rappresenta la differenza tra fra la povertà e la miseria.
È noto anche il problema riguardante i brevetti dei farmaci, che ha fatto molto rumore nell'Africa del sud, a causa dell'Aids, ma si potrebbe parlare anche dello sfruttamento delle foreste, etc. Dunque non sono le azioni che mancano, ma sono le forme di queste azioni che devono essere riviste per permettere all'Africa di respirare. Non si tratta di agire al posto degli africani, ma piuttosto di lasciare loro la possibilità di agire senza condizionarli e opprimerli.

Sembra opinione comune che il terrorismo islamico sia frutto solamente del fanatismo religioso e della sete di potere. Secondo lei è possibile invece che sia determinato o favorito anche dalla disparità di condizioni tra nord e sud del mondo e dall'assoggettamento dei paesi poveri alle logiche di mercato delle nazioni ricche?
Assolutamente! Per me è evidente, perché qualche anno fa le masse dei paesi arabi, arabo-mussulmani o del medio oriente (penso all'Egitto, all'Irak, alla Siria, all'Algeria…) votavano per partiti nazionalisti, modernisti, che avevano per obbiettivo di modernizzare l'Islam (era il caso del nasserismo in Egitto, del movimento Bass in Irak e Siria, Selem in Algeria…). Dunque questi movimenti avevano il favore popolare. Hanno fallito perché i loro paesi hanno fallito economicamente. Adesso le stesse masse si rivolgono verso i fratelli mussulmani, verso i movimenti islamisti che hanno come obbiettivo, non più di modernizzare l'islam, ma di islamizzare la modernità.
È il progetto dell'islamismo politico. Il terrorismo trova facile esca in tutti coloro che sono disperati a causa del conflitto israelo-palestinese, che non vedono più altre soluzioni oltre al suicidio, con i danni che ciò può causare e di cui abbiamo visto l'aspetto spettacolare in settembre.

Se dunque l'attuale situazione economica è iniqua, in quale direzione dovrebbe cambiare il sistema?
Credo che il sistema economico dovrebbe trasformarsi quasi al punto di non essere più economico. Voglio dire che non dovrebbe essere un meccanismo autonomo, come un modello che funziona da solo -come lo presentano nelle scuole d'economia. Bisogna invece reintrodurre la dimensione della politica e soprattutto -ciò che è fondamentale- reintrodurre nei fatti sociali (perché l'economia altro non è che un sistema di scambi fra uomini) la dimensione della giustizia, totalmente eliminata dalle leggi del mercato che sono una specie di meccanismo infernale automatico che, poiché automatico, non prevede alcuna autorità che dica cosa è giusto o ingiusto. Dunque il problema -del quale, in un certo modo, il commercio equo e solidale prospetta una soluzione, benché in grado microscopico- è di reintrodurre un minimo di giustizia nei fatti sociali: nei rapporti tra datori di lavoro e dipendenti, tra consumatori e distributori, come anche fra consumatori del nord e produttori del sud.

Quali istituzioni politiche sarebbero necessarie (a livello mondiale, nazionale e locale)?
Ci vorrebbero ovviamente delle istituzioni che abbiano un potere morale forte, che abbiano un duplice aspetto: economico e giuridico. Che possano, in qualche modo, far regnare un minimo di giustizia economica, autorità arbitrali che beneficino di un consenso sufficiente per pronunciarsi. Questo oggi non esiste, anzi l'OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio o WTO ndr) fa esattamente l'inverso: passa il tempo a distruggere alcune regole che potrebbero esistere ed ha la sola regola di distruggere ogni regola.

Che cosa possono fare i singoli e le associazioni di cittadini per cambiare le cose dal basso?
Possono fare quello che fanno in questo periodo gli Italiani -che si mobilitano in campo politico per difendere i magistrati dagli attacchi del governo, per difendere la società civile- dunque possono mobilitarsi e organizzarsi per resistere e far funzionare, al tempo stesso, delle piccole alternative al loro livello, fare pressione sulle società multinazionali attraverso campagne di boicottaggio e d'informazione. Questo si pratica già su piccola scala, bisogna lavorare come fa Rete Lilliput, su scala sempre più grande fino ad arrivare, finalmente, a cambiare il mondo. Come s'è detto a Porto Alegre: "Un altro mondo è possibile", bisogna tentare di realizzarlo a partire da iniziative della base.

Quale significato ha oggi il termine globalizzazione e quali potrebbe assumere in ottiche d'altro genere.
A questo proposito sto scrivendo un articolo che s'intitolerà: "Un altro mondo è possibile, non un'altra globalizzazione". Penso che Globalizzazione sia uno slogan politico, nessuno l'ha mai definita meglio di quanto ha fatto l'ex segretario di stato americano Henry Kissinger, che ha detto: "La globalizzazione è il nuovo nome della politica egemonica americana". Credo sia esattamente questo e nient'altro. Dunque il problema non è cercare un'altra globalizzazione, nel senso che il mondo è mondializzato (il termine è utilizzato con lo stesso valore di globalizzato: in Francia l'anglismo globalizzazione non ha attecchito, se ne tenga conto anche in seguito. ndr) sin dal XVI secolo. A partire da Cristoforo Colombo, viviamo tutti in un villaggio mondiale; il problema è che questo villaggio mondiale è plurale, diverso e bisogna mantenere le culture che invece sono minacciate dalla mondializzazione. La questione è di costruire un altro mondo, che non sia un mondo dominato dall'economia. Potrei utilizzare anch'io uno slogan: "Bisogna organizzare la democrazia delle culture". Credo si debba pensare ad una sorta di pluriversalismo (invento questo neologismo), opposto ad un pensiero unico, per un mondo unico. È necessario un mondo diverso, un mondo plurale, con un pensiero ugualmente plurale.

Lei è di ritorno dal FSM di Porto Alegre, quali ritiene che siano stati i punti caratterizzanti di questa edizione?
Porto Alegre è un forum: non è il luogo da cui deve uscire un programma o qualcosa del genere. Ci si va per incontrarsi, per affermare, nelle diversità, la propria opposizione alla mondializzazione. C'erano 700 laboratori, una quantità di conferenze tenutesi in luoghi differenti: non si poteva essere presenti a tutto. Ciò che è interessante è che questo fenomeno d'incontro esiste, ma non ci sono documenti finali o sintesi possibili. Vorrei ricordare un aspetto che molti, organizzatori compresi, dimenticano: il Forum sociale di Porto Alegre altro non è che un "Forum Sociale Mondiale Occidentale". Le persone che vi partecipano sono quasi tutte occidentali o occidentalizzate. Sono stati invitati dei rappresentanti dell'Asia e dell'Africa, gli è stato pagato il viaggio ma sono degli interlocutori che studiano nelle università occidentali, sono occidentalizzati: non sono dei veri rappresentanti dell'Asia o dell'Africa. Comunque, anche così (d'altronde non potrebbe essere diversamente), va bene che ci sia una critica occidentale dell'occidente, di questa forma attuale dell'occidentalizzazione che è la mondializzazione. Sarebbe però un errore pretendere di rappresentare la società civile mondiale. Essa si compone anche di un miliardo di musulmani -che non erano assolutamente rappresentati a Porto Alegre- dei milioni d'Africani che, al pari degli Asiatici, non erano rappresentati. Credo si debba aver coscienza di questi limiti; questa non è una critica: è semplicemente la mia impressione.
Rispetto al primo Forum Mondiale tenutosi un anno fa, il movimento è certamente cambiato.

Quali le sembrano le principali modificazioni intervenute in quest'anno?
Beh questo è difficile a dirsi. (Innanzi tutto non c'ero l'anno scorso a Porto Alegre e non posso vedere le differenze.) È difficile a dirsi perché si tratta di un movimento pieno di contraddizioni, ognuno ha degli obiettivi diversi. A Porto Alegre, l'avrete visto dalle foto, c'erano giovani brasiliani che sfilavano con la falce e martello, c'erano perfino le t-shirt con la faccia di Stalin, dunque non si era tutti sulla stessa lunghezza d'onda.
Quel che conta è che si sarebbe potuto pensare -e alcuni l'hanno pensato, soprattutto in Italia- che gli avvenimenti dell'11 settembre avrebbero inflitto un duro colpo al movimento di contestazione, invece è successo esattamente il contrario. È molto importante che il movimento di contestazione delle organizzazioni finanziarie internazionali, della mondializzazione finanziaria, della mondializzazione economica, dell'egemonia americana e di questa specie di nuovo ordine mondiale militare-finanziario, sia sempre presente, più forte che mai, che non abbia abbassato la testa di fronte alle intimidazioni degli Stati Uniti, delle potenze, dei nuovi padroni del mondo e di questo piccolo padrone locale che è Berlusconi. Gli Italiani a Porto Alegre infatti erano molto numerosi: circa millesettecento.

Frasi importanti
· La crescita è il problema e il rimedio è di cambiare completamente il sistema di funzionamento.
· Non si deve agire al posto degli africani, ma bisogna lasciare loro la possibilità di agire senza essere oppressi.
· Il sistema deve effettivamente vivere domani per sopravvivere oggi.
· La globalizzazione è il nuovo nome della politica egemonica americana
· Bisogna organizzare la democrazia delle culture
· È necessario un mondo diverso, un mondo plurale, con un pensiero ugualmente plurale.
· Il Forum Sociale di Porto Alegre altro non è che un "Forum Sociale Mondiale Occidentale".

 

SERGE LATOUCHE
Si definisce "economista eterodosso". Docente all'Università di Paris Sud. Nome di spicco tra i pensatori critici della civilizzazione occidentale. Esponente del MAUSS (Movimento AntiUtilitarista nelle Scienze Sociali). È da molti considerato uno dei "Guru" del movimento di contestazione dell'attuale globalizzazione.
Suoi libri tradotti in italiano sono, tra gli altri: "L'occidentalizzazione del mondo" (Boringhieri, 1992), "Il pianeta dei naufraghi" (Boringhieri, 1993), "La megamacchina" (Boringhieri, 1995), "L'altra Africa" (Boringhieri, 1997), "Il mondo ridotto a mercato" (Ed. Lavoro, 1998). "L'invenzione dell'economia" (Arianna Editrice, 1999), di prossima uscita "La sfida della giustizia infinita".

 

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