Pubblicato su politicadomani Num 105 - Luglio 2010

Le degenerazioni

di Marco Vitale

La prima degenerazione
è il peso opprimente della spesa pubblica, del debito pubblico, dell’abnorme numero di dipendenti pubblici.
Da questa degenerazione non se ne esce né con una né con due finanziarie, ma attraverso un piano che va perseguito, con coerenza, per almeno dieci anni e che si prefigga due obiettivi centrali: ridurre i 4 milioni di dipendenti pubblici a 2.5 milioni ed il debito pubblico al 60% del PIL. Cappugi spiega, nel suo libro, come questi obiettivi siano perseguibili con un buon governo ed una visione di lungo periodo, senza sangue e senza dolori, ma gradualmente, ragionevolmente, responsabilmente. Far percepire l’importanza assoluta di questi due obiettivi è responsabilità comune. Senza un grande sforzo di popolo non ne usciremo. Ed un grande sforzo di popolo presuppone una grande consapevolezza. Non sappiamo se ci saranno le forze politiche capaci di realizzare le necessarie sintesi e guida politica. Ma sappiamo con certezza che la guida e sintesi politica non nascerà mai se non emergerà dal corpo sociale una grande consapevolezza ed energia. La manovra finanziaria attualmente in esame in Parlamento dà un chiaro segnale in questa direzione, e perciò merita plauso ed appoggio. Anche se l’assetto di fondo ancora tiene, mi sarei certo aspettato molto più coraggio su vari temi, quali: quello delle provincie, quello delle esagerate prebende ai partiti politici, quello dei salatissimi ed inefficienti doppi incarichi, quello degli enti inutili da cancellare, quello delle spese enormi per le forze armate. Ma alcuni di questi temi non possono essere trattati, con speranza di successo, da una finanziaria. Devono diventare capitoli di una politica specifica, esplicita e di lungo respiro. Il tema delle province merita un approfondimento in sede di riesame degli assetti istituzionali, oltre la retorica (molte province, se si escludono quelle troppo piccole e quelle che coincidono con grandi capoluoghi come Milano o Roma o Napoli, sono, in realtà utilissime; il tema delle dimensioni e del costo delle forze armate deve diventare un capitolo essenziale di una politica economica di medio termine; gli enti culturali o pseudo culturali da cancellare meritano un intervento ad hoc che delinei con chiarezza e severità i limiti dell’intervento dello Stato in questa materia). Ma questa politica deve avere come perno i due obiettivi centrali: ridurre i dipendenti pubblici a 2.5 milioni ed il debito pubblico al 60% in dieci anni.

La seconda degenerazione,
che è l’altra faccia della prima, è la scarsa produttività delle PA (non tutte, ma in grande parte).
è un tema ormai largamente analizzato e documentato. Si tratta ora di agire e spingere per portare a casa, finalmente, dei risultati, perché, in economia, la produttività se non è tutto è quasi tutto. E ciò sia nel pubblico che nel privato. Per questo l’azione di Tremonti di contenimento e taglio della spesa pubblica va saldato, a filo doppio, con l’azione del Ministro Brunetta sul ricupero di produttività delle PA. Ho perso un po’ la visibilità di come sta procedendo l’azione del ministro Brunetta, ma mi riferisco soprattutto alla strategia di fondo, alla direzione di marcia. Sbagliano alla grossa i commentatori che hanno visto un contrasto tra l’azione di Tremonti e di Brunetta. Esse, anzi, si saldano e si rafforzano reciprocamente. E mi auguro che i due ministri collaborino sempre più strettamente. Insieme a Sacconi, che rappresenta la componente sociale, essi rappresentano la migliore troika economica da molti anni a questa parte e se saranno sorretti da un’opinione pubblica informata, attenta e trasversale, tale da aiutarli a combattere i loro veri nemici che sono all’interno del loro partito, potranno fare molto per aiutare il Paese a navigare in modo accettabile, anche nel mare in burrasca.

La terza degenerazione è quella fiscale
Il rapporto fiscale non è mai stato, in nessun paese e nessuna epoca, facile e pacifico, se è vero che il più antico testo conosciuto in materia fiscale - che si trova nel museo fiscale dell’Università di Filadelfia, appartiene alla civiltà sumera ed è del 3000 avanti Cristo - dice: “Potrai amare un principe, potrai amare un re, ma la persona che devi temere è l’esattore fiscale”; se è vero che il motivo fiscale è alla base di un gran numero di rivoluzioni e di tanti eventi storici, a partire dalla fuga degli ebrei dall’Egitto; se sono vere tante altre storie fiscali contenute in un affascinante libro di storia e pratica fiscale: Charles Adams, “For God and Evil. L’influsso della tassazione sulla storia dell’umanità”, ed. it. Liberilibri, 2005. Ma da noi, oggi, il rapporto fiscale è intollerabilmente cattivo e profondamente iniquo, indegno di un paese civile, sia pure di civiltà medio-bassa, come noi ci siamo ridotti. Non è sempre stato così. Dal 1950 al 1956 il ministro delle finanze Ezio Vanoni riuscì a far fare al Paese grandi progressi verso un rapporto fiscale accettabile, basato su un ordinamento possibilmente equo e severo ma anche sul risveglio di una rinnovata coscienza civile. Così dal 1972 al 1979 riuscimmo a fare importanti progressi e sembravamo avviati verso una direzione positiva. Poi, per una serie di ragioni, si è rotto tutto e da allora è stato un continuo regresso. Adesso ci si rende nuovamente conto dell’importanza strategica di un rapporto fiscale accettabile, anche perché la cassa è vuota e la cassa vuota è lo strumento più efficace per riportare persone e governi alla ragione. Le finanziarie si fanno quadrare sempre di più con l’inevitabile “lotta all’evasione fiscale” e con il conseguente gettito sperato ed aleatorio. Ma sino a che il problema viene affrontato in questo modo non si andrà da nessuna parte. Il terrorismo fiscale, fine a se stesso, non ha mai funzionato, nei millenni. La “lotta alla evasione fiscale” con digrignar di denti, alla Visco, serve per la propaganda politica. L’obiettivo deve essere piuttosto quello di avviare una politica che ricostruisca un rapporto fiscale decente. E questa politica è fatta certamente di rigore, ispezioni, sanzioni, restrizione nell’uso dei contanti come forma di pagameto (questo punto è assolutamente centrale), ma è fatta anche di tante altre cose. Innanzi tutto di moderazione nelle aliquote. Poi di equità e perequazione (non a caso Vanoni aveva chiamato le sue leggi di riforma, leggi di perequazione tributaria), di leggi passabilmente chiare, di metodi di accertamento e riscossione delle imposte semplici veloci e urbane e di altre caratteristiche tecniche positive del rapporto tributario (tra le quali, indispensabile, un’imposta basata sul patrimonio netto, come in Svizzera). Ma poi i pilastri veri sono cinque.

  • Il primo pilastro è la convinzione diffusa che il gettito delle imposte sarà ben impiegato e frutterà servizi funzionali ed utili ai cittadini.
    Questo punto si scontra con un livello di servizi delle PA che, salvo eccezioni che pure esistono e sono importanti, è miserabile e viene percepito ancora più miserabile di quanto in effetti sia.
  • Il secondo pilastro è la convinzione diffusa che i ladri ed i corruttori non metteranno le mani sul gettito delle imposte pagate dai cittadini.
    Questo punto si scontra, in questa fase, con un livello di scandali e corruzione abnorme che sembra accettato se non favorito, come “instrumentum regni” dall’attuale governo. Basta vedere cosa sta succedendo in questi giorni in relazione alle leggi sulle intercettazioni e sui bavagli alla stampa per capire la percezione diffusa tra la popolazione, che questi vogliono continuare a favorire le cricche ed il saccheggio del denaro pubblico. Così un giornalista e direttore di un quotidiano moderato come La Stampa, a sua volta persona di grande equilibrio e moderazione, come Mario Calabresi, può consapevolmente scrivere: «è forte l’amarezza per un gesto che non ha nulla a che fare con la privacy e la civiltà giuridica, ma ci parla solo della volontà urgente della politica di calare il sipario sulle inchieste e di mettersi al riparo dagli scandali, per garantirsi un tranquillo futuro di impunità e di mani libere» (La Stampa, 11 giugno 2010).
  • Il terzo pilastro è il contenimento dell’economia criminale.
    Su questo punto, invece, prendiamo atto che il peso dell’economia criminale è da noi abnorme. Sono state fatte tante stime e tutte ci dicono che il peso dell’economia criminale è di assoluto rilievo macroeconomico. Nessun paese sviluppato conosce un fenomeno di questa entità, se non forse alcuni paesi sudamericani o dell’America centrale, come il Messico, per quanto riguarda il narcotraffico. E l’economia criminale genera necessariamente economia nera e grigia, tutte comunque fuori dalla regolarità fiscale. Su questo punto le forze dell’ordine ed i magistrati stanno facendo, dal 1992, un buon lavoro, ben sostenuto dall’attuale governo. Ma quello che manca è un impegno vero contro la corruzione che rappresenta l’humus dell’economia criminale, un uso efficace dello strumento delle inchieste fiscali e soprattutto patrimoniali, basate sugli indizi di ricchezza, che non è sempre così facile nascondere. Non si può combattere l’economia criminale e non combattere la corruzione.
  • Il quarto pilastro è che la classe di governo deve godere di un altissimo livello di affidabilità e credibilità in materia fiscale.
    I contribuenti devono sapere che se faranno il loro dovere saranno lasciati veramente in pace, mentre se si comportano da evasori, saranno beccati e pagheranno un prezzo elevato: la certezza della pena. Questo punto si scontra con un bassissimo livello di credibilità del Governo attuale. L’uso e l’abuso di condoni e sconti fiscali è la ragione prima di questo basso livello di credibilità. Gli evasori non credono al rigore annunciato e si attestano in attesa dell’ “inevitabile” prossimo condono. Credo che sia proprio questo il maggiore handicap di questo Governo in materia fiscale. Da qui la mia proposta. L’unico modo per liberarsi da questo handicap, di fare un salto di qualità vero, di rinnegare in modo percepibile e credibile il proprio passato, è di proporre e far approvare una legge costituzionale che escluda per sempre il ricorso ai condoni fiscali. Senza questo salto di qualità, in materia fiscale si continuerà a pestare l’acqua nel mortaio. E sarà un guaio serio per tutti, ed in primo luogo per il Governo.
  • Il quinto pilastro è che bisogna costruire, anche attraverso le politiche sopra indicate, oltre che attraverso una comunicazione intelligente e penetrante, un’opinione pubblica consapevole e sempre più ampia, che nutra verso l’evasione fiscale una seria riprovazione morale.
    L’evasore fiscale non deve sentirsi un furbo ma, come è, un ladro. Ed anche questo è un obiettivo difficile da perseguire in un paese dominato da cricche e da ladri, con un livello altissimo di corruzione tollerato, con bavagli alla stampa, con leader che di evasione fiscale, stando alle risultanze degli atti giudiziari, sono piuttosto esperti, con una successione ininterrotta di condoni. Bisogna piuttosto coinvolgere nel progetto di risanamento un serio impegno delle associazioni imprenditoriali e dei professionisti.
La quarta degenerazione è lo “statalismo”
Per statalismo non intendo semplicemente una struttura economica con una forte presenza dello Stato nell’economia. Intendo piuttosto una mentalità diffusa, un modo d’essere, una cultura basata sul principio che dobbiamo attenderci tutto dallo Stato. “Messer io sono d’Italia e mercante molto ricco, e quella ricchezza che io ho, non l’ho di mio patrimonio, ma tutta guadagnata di mia sollecitudine”, dice Novellino (novella VIII). Ritorneremo mai a questa Italia ricca, intraprendente ed orgogliosa di fare le cose di propria “sollecitudine”, senza attendere il sostegno di un’eredità o dello Stato?
Le prospettive non sono buone, come anche recenti segnali hanno evidenziato, come l’elenco degli enti inutili o presunti tali e soprattutto le reazioni che lo stesso ha suscitato, che sono una cartina al tornasole. Nel nostro paese il più piccolo comitato di quartiere che deve festeggiare il patrono locale o un personaggio sconosciuto ai più, anche se importante nella storia del quartiere, chiede e si attende dei fondi pubblici. Non voglio discutere qui il merito della questione sulla funzione culturale di queste iniziative. è una questione complessa che va approfondita con calma. Vi sono segnali forti che questo governo non capisca che l’investimento in cultura è un investimento ad altissimo rendimento. Ma vi sono segnali altrettanto forti che la tendenza dominante del nostro popolo è di gabellare per cultura circoli assistenziali per professori e politici in pensione e che ogni iniziativa locale abbisogni di denaro pubblico.
è questa la spirale che va spezzata, e si tratta, prima di tutto, di un grande sforzo culturale che va fatto.
Qualche tempo fa ho tenuto una conferenza in una valle bresciana, ospite di un bellissimo complesso scolastico che ospita quasi mille allievi. Mi ha colpito l’ottima organizzazione, l’ordine, la pulizia, la ricca attrezzatura, l’atmosfera che si respirava di un luogo dove non manca niente di ciò che è necessario. Mi complimentai con il preside e aggiunsi: «allora non è vero che lo Stato lesina i mezzi, come si sente dire?». «Lo Stato lesina moltissimo i mezzi - mi rispose - e ultimamente ha fatto dei tagli drammatici. Ma poiché la nostra scuola è percepita da tutti come un grande bene comune, è aperta a tutti, svolge un’attività culturale per la valle ospitando manifestazioni di vario tipo, è un punto di riferimento, come la Chiesa, ed è forse più importante della Chiesa, allora intorno alla Scuola si stringono tanti cittadini. Abbiamo l’associazione amici della scuola, abbiamo sponsor imprenditori, svolgiamo attività organizzata e fruttuosa di “fund raising” attraverso molte attività, naturalmente compatibili con il prestigio e la dignità della Scuola. E così ce la caviamo».
Il FAI ha fatto ricuperi di siti importanti e li gestisce con successo. Mi risulta che non abbia mai chiesto soldi allo Stato, anche se svolge una funzione di interesse pubblico, ma solo ai propri associati, amici e sponsor.
Tu citi Don Loffredo del Rione Sanità di Napoli. Conosco bene Don Antonio Loffredo e le opere sue e dei suoi giovani. So che hanno fatto e stanno facendo un lavoro formidabile per riconquistare alla tradizione civile e turistica napoletana un quartiere storico ed affascinante come il quartiere Sanità e, nella misura in cui posso, cerco di appoggiarli. So che hanno fatto un dono immenso alla città di Napoli, ripristinando il percorso delle Catacombe che scendono da Capodimonte sino al Duomo, ed è un dono anche economico perché hanno così ripristinato un itinerario turistico di grande interesse e, mi risulta, diventato rapidamente frequentato. Ma non hanno mai chiesto un aiuto dallo Stato né dagli enti locali. Hanno fatto tutto loro, con i loro mezzi e con i loro lavori, con l’aiuto di amici e di sponsor, con l’aiuto della Chiesa ed attivando piccole attività commerciali. Il Comune di Napoli che dovrebbe portarli in palmo di mano, anche come modello, li ignora. Tutto quello che sfugge alla mentalità ed ai metodi statalisti non solo non viene apprezzato, ma dà fastidio. Perché spezza il circuito dell’economia della tangente.
La stessa politicadomani, alla quale Tu dedichi tante preziose fatiche, non ha mai ricevuto un soldo dallo Stato. Ma quanti sono, invece, i giornali, anche di grande tiratura ed i giornaletti politici clandestini che ricevono tanti soldi dallo Stato?
Non mancano, dunque, esempi positivi, ma sono pochi. Il modello e la mentalità dominante è che per fare qualsiasi cosa, soprattutto nel campo della cultura o della pseudocultura, bisogna succhiare il latte dello Stato. Fu grazie a questa tecnica che, con pochi soldi, Mussolini faceva ballare la maggior parte degli intellettuali, come orsi ammaestrati.
Non è possibile andare avanti così, non solo perché lo Stato non ha più risorse, ma soprattutto perché l’assetto dello Stato è cambiato profondamente, delegando molte attività agli enti locali e perché sono emersi nuovi soggetti, come le Fondazioni bancarie che, almeno nel Nord, sono diventate i veri soggetti di programmazione del territorio.
Bisogna, dunque, lavorare, soprattutto nella sinistra, perché questo approccio statalista e mammone venga abbandonato. Lo Stato deve concentrarsi, in campo culturale, su poche cose, grandi e di sicuro rilievo nazionale. Le attività locali devono, innanzi tutto, imparare ad autofinanziarsi, anche con il supporto di sponsor ed amici e del mercato, e solo in via residuale ricorrere alla finanza pubblica degli enti locali. Gli sperperi che si vedono in giro da un lato e l’atteggiamento mammone ed elemosiniere dei più, giustificano i tagli, anche grossolani, imposti agli enti locali dalla finanziaria in corso.

 

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