Pubblicato su politicadomani Num 105 - Luglio 2010

Dall’allarme alla speranza Che cosa vogliamo essere?

di Marco Vitale

Come sai a Milano abbiamo lanciato un giornale on line la cui testata esprime il suo programma: Allarme Milano, Speranza Milano (www.allarmemilano-speranzamilano.it).
Il tema del rapporto continuo e dialettico tra allarme e speranza mi è molto caro. Non è sufficiente lanciare allarmi se non sono indirizzati e guidati dalla ricerca della speranza. Né si può costruire una speranza vera e solida, senza lanciare allarmi sui pericoli e sulle tante cose che non vanno, senza una seria consapevolezza da parte del popolo e una sua convinta partecipazione agli impegni necessari per rispondere, in maniera costruttiva, agli allarmi. Io ho molta fiducia nel popolo italiano, non perché il DIL è relativamente basso, ma perché è un popolo laborioso, che sa lavorare, parsimonioso.
Ma dobbiamo tutti impegnarci a fondo (ognuno può portare il suo piccolo granello di sabbia) per correggere alcune grandi degenerazioni ed alcune grandi derive. A queste degenerazioni e derive dedicherò l’ultima parte di questa mia lunga lettera.

Le derive
Incomincerò dalle derive e seguo qui Cappugi che ne individua tre come le più pericolose:

«La prima deriva è credere nel Paese che non c’è»

«Esiste una pericolosa tendenza di una parte importante dell’opinione pubblica e in particolare dei giovani che identifica il proprio futuro nell’immagine fornita dai media televisivi che propongono modelli, stili di vita e di lavoro basati sull’economia catodica o di carta, viste come scorciatoie comode per raggiungere notorietà e benessere. Non a caso a un sondaggio fra le giovanissime, la maggioranza delle ragazze ha risposto che la sua massima aspirazione era fare la velina o tutto al più la giornalista televisiva.
L’immagine dell’Italia di oggi potrebbe essere quella trasmessa dalla televisione la sera del 18 dicembre 2001 durante una festa in onore di Maurizio Costanzo. Sembrava una di quelle famose vignette in cui appaiono insieme tutti i personaggi dei cartoni animati di Walt Disney. Intorno a Berlusconi-Paperone c’erano tutti: attori e attrici, politici degli opposti schieramenti, imprenditori e giornalisti, tanti Minnie e Topolino, Paperino e Paperoga, Orazio e Clarabella. La sintesi dell’Italia virtuale costruita da 50 anni di televisione, l’Italia dell’effimero e del benessere ostentato, del consumismo e dell’apparire. L’Italia che si era riconosciuta nel premier-venditore e magnate dei media grazie a quel meraviglioso processo psicologico per cui un Paese individualista, simile a un conglomerato di monadi leibneziane, trova il suo momento di condensazione identificandosi con il leader carismatico, simbolo del successo che tutti vorrebbero raggiungere».
Dobbiamo riscoprire e far conoscere un’Italia che ancora c’è, che è quella che tiene in piedi il paese, l’Italia del lavoro serio, dello studio serio, della laboriosità, della parsimonia, dell’onestà. È un paese che ancora c’è, ma che viene lentamente emarginato ed ucciso dalla dittatura televisiva. Le cose esistono in quanto sono conosciute e percepite. Andando avanti così, pian piano, l’Italia seria svanirà nel nulla e resterà solo l’Italia dei nani e delle ballerine che, ad un certo punto, smetteranno anche loro di ballare per mancanza di alcool.

«La seconda deriva è quella di immaginare un Paese che ruota intorno al commercio interno, fatto di supermarket, outlet, hard discount, call center, ed una miriade di negozi e negozietti, pub e pizzerie»

Tutto ciò «significherebbe che l’Italia da paese produttore e trasformatore diventerebbe solo un grande mercato di consumo da sfruttare. Come è avvenuto negli ultimi venti anni nel Mezzogiorno. Non a caso gli investimenti esteri in Italia escono dal manifatturiero e si concentrano soprattutto nell’area commerciale interna per lucrare tre volte: sul valore aggiunto delle esportazioni nel nostro Paese, sui profitti della distribuzione e sull’incremento dei valori immobiliari». «Però alla lunga, senza adeguati contrappesi produttivi, è come pestare l’acqua in un mortaio. Si rischia di avere un Pil drogato che, raggiunto un certo livello, non cresce più perché il Paese non produce sufficiente ricchezza sostanziale aggiuntiva: si scambia la ricchezza prodotta o importata in un circuito chiuso dove il valore aggiunto andrebbe a impinguare le tasche degli altri, cioè di chi vende automobili, telefoni, prodotti alimentari, tessili e casalinghi. Sarebbe insomma una partita di giro. Per crescere non possiamo solo produrre per i nostri consumi o importare prodotti altrui, dobbiamo anche esportare. O si produce di più o si consuma di meno, meglio entrambi i comportamenti!»

«La terza deriva è credere di poter essere forti e conservare benessere e welfare restando (nota: o meglio, regredendo) un paese di artigiani, di piccole imprese di dipendenti pubblici»

Per mantenere e rafforzare il nostro posto e il nostro benessere in un’economia di giganti, sembra impossibile pensare che sia possibile, all’infinito, basarsi su questo modello. Le nostre imprese medie devono crescere; la nostra ricerca scientifica e tecnica deve crescere; i nostri artigiani (competenza preziosa) si devono aggregare in forme funzionali che rispettino la individualità, ma affrontino, in modo collettivo, tante funzioni, i nostri dipendenti pubblici devono, nel loro insieme, diminuire ed essere meglio collocati dove più elevati sono i bisogni reali e porsi, con orgoglio anche personale, l’obiettivo di diventare utili e produttivi.

 

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