Pubblicato su Politica Domani Num 10 - Gennaio 2002

Giovani campioni e contrabbandieri
LA TRATTA DEGLI ATLETI
Commercio illegale che sfrutta sogni e bisogni di giovani africani

Daniele Proietto

Ormai è innegabile che i grandi avvenimenti dei campionati, continentale o mondiale, di atletica leggera (Olimpiadi, giochi di Helsinki, Zurigo, ecc..) sono svolti nel "segno del nero". Il dominio degli atleti africani è quasi incontrastato, essi danno un contributo innegabile allo sport, a volte con i colori della propria nazione, o più spesso diventando cittadini degli Stati Uniti, del Giappone e dell'Europa, affermandosi oltre che nell'atletica anche nel calcio, nella pallacanestro, nella pallavolo o nella boxe. Se ne sono accorti i molti Paesi industrializzati dove lo sport è più sviluppato e dove la concorrenza e le esigenze sia sportive che pubblicitarie richiedono un continuo approvvigionamento di talenti naturali.
In questo modo è nato il mito Pelè (grande campione di calcio del passato e attuale Ministro dello Sport in Brasile e vicepresidente della Fifa), il quale ha definito quello del calcio un "mercato vergognoso, orchestrato da maneggioni che guadagnano cifre altissime sulla pelle di giovani talenti". Per la prima volta Pelè si sfoga, parlando dei giovani talenti africani "comprati per quattro soldi e venduti per qualche milione nella speranza che domani fruttino miliardi". I
Il fenomeno degli "schiavi in calzoncini corti", denunciato sulle riviste "Vita" e "Le Nouvel Afrique Asie", avrebbe avuto inizio subito dopo la vittoria del titolo olimpico di calcio nel 1996 ad Atlanta da parte della Nigeria. Il trionfo, amplificato dai media, ha funzionato come una sorta di vetrina per il mondo occidentale, e di lì a poco hanno fatto la loro comparsa dozzine di "bracconieri" e "predatori" che, godendo di complicità locali e corrompendo a destra e a manca, per qualche migliaio di franchi sono in grado di far uscire clandestinamente dal paese ragazzini calcisticamente dotati destinati ad essere allevati all'estero. Fuori dai loro paesi d'origine, ai ragazzi viene dato un nuovo nome. Con i nuovi documenti tornano ad essere ufficialmente "regolari", sono invece alla mercé degli sponsor, gli unici a decidere sul loro destino. In molti paesi africani non mancano avventurieri che si improvvisano talent-scout; pagano dai 1000 ai 1500 franchi alla famiglia di un bambino di 8/10 anni da allenare, nella speranza che a 16/17 anni possa essere rivenduto a 100 milioni di franchi.
Decine di ragazzini africani "sbarcano" così, puntualmente, nei settori giovanili delle società di calcio (europee per la maggior parte), tutti quanti con lo stesso passato e con prospettive future molto simili. Per un mese o poco più vivono negli alloggi della società che li ha acquistati, hanno la possibilità di studiare, e si allenano giornalmente. A questi ragazzi viene fatto assaggiare uno stile di vita completamente diverso da quello a cui erano abituati e nettamente migliore. Ma in poche settimane la favola finisce: raramente fra tutti i ragazzi arrivati ne viene scelto più di uno. Per il fortunato inizierà davvero una nuova vita; gli altri saranno "rispediti al mittente" senza spiegazioni, sostituiti da quelli che giungeranno al loro posto. Un responsabile del settore ha dichiarato: "Hanno quasi sempre un futuro rovinato quando riappendono le scarpette al chiodo".
Il lavoro dei talent scout è senza dubbio facilitato dalla voglia dei ragazzi di avere successo in uno sport che è largamente conosciuto nel loro paese, e da quella delle famiglie che auspicano per i loro figli un futuro migliore di quello che può loro offrire la nazione di provenienza; a ciò si aggiungano la carenza di strutture adeguate e il sogno di emulare i campioni della propria nazione, che ormai giocano quasi tutti in Europa per motivi economici (un giocatore nigeriano della squadra nazionale guadagna circa 300.000 lire al mese) e il quadro è completo.
"Se avessimo le scarpe, le maglie e gli stadi, se avessimo le vostre strutture, sarebbe difficile per l'Europa competere con l'Africa. Ma finché i corridori africani avranno fame dovremo affidarci agli exploit dei singoli. Sono fiducioso: un giorno troveremo la soluzione di questi problemi. Allora l'Africa diventerà, tra i continenti, il numero uno". Sono parole dell'ugandese Akii Bua, medaglia d'oro dei 400 ostacoli alle olimpiadi di Monaco del 1972.

 

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Num 10 Gennaio 2002 | politicadomani.it