New Public Management
Politica e PA. Il connubio possibile
Il principio della separazione fra politica e pubblica amministrazione è figlia di “Mani Pulite”, che l’ha sancita come rimedio alla corruzione dilagante. Il rimedio è diventato peggiore del male perché la separazione si è spesso risolta in contrapposizione e, di conseguenza, in paralisi. La PA è concepita come una burocrazia malata di elefantiasi e, per di più, cieca. Invece, è compito della PA collaborare con la politica per soddisfare i bisogni dei cittadini agendo con saggezza e nel rispetto delle regole del buon vivere di una comunità.
di Nicoletta Stame | May 2013
Le riforme della PA dagli anni ’90 in poi hanno introdotto il concetto di management pubblico, secondo i principi del New Public Management. L’idea del management pubblico significa che la PA non deve essere più concepita come una burocrazia che si muove secondo regole prestabilite, e applicabili indistintamente a tutte le situazioni, ma deve invece essere vista come una organizzazione che si pone via via, all’interno di situazioni concrete, problemi di migliore gestione (efficienza nell’uso delle risorse e efficacia nel raggiungimento degli obiettivi), al fine di soddisfare bisogni dei cittadini e - come si suol dire - produrre beni pubblici. L’obiettivo del management pubblico è quello di “fare più e meglio con meno”.
La differenza rispetto al management privato sta nell’oggetto delle decisioni da prendere (beni pubblici, diritti universali, caratteristica relazionale dei servizi alla persona), non nella natura del rapporto di lavoro: per questo, credo che l’attenzione dedicata prevalentemente alla privatizzazione del rapporto di lavoro, che è solo uno dei tanti aspetti del New Public Management, abbia nuociuto alla comprensione del principio manageriale più ampio.
Per prendere decisioni che rispondano a tali principi, occorrono persone in grado di esercitare una propria autonomia (discrezionalità) e che poi ne rispondano in base ai risultati ottenuti (accountability vista non come mera rendicontazione rispetto a percorsi prestabiliti, ma come assunzione di responsabilità delle scelte compiute).
Qui si pone una questione centrale al dibattito di questi anni, che è quello del rapporto tra politica e amministrazione. Le riforme degli anni ’90 sono figlie di “Mani Pulite”, e hanno sancito il principio della separazione tra politica e amministrazione come rimedio alla corruzione dilagante. D’altra parte, poi, per mitigare un pericolo di eccessiva autonomia da parte degli amministrativi, sono state introdotte norme di tipo “spoils system”, in modo da poter riservare ai politici un ambito di influenza sul funzionamento dell’amministrazione. Ne sono nate grandi dispute su dove fissare i confini tra politica e amministrazione: il capo di gabinetto è di nomina politica, il dirigente generale è di carriera amministrativa. E così via, sempre in base a logiche legalistiche, e con scarsa considerazione della pratica.
La distinzione tra politica e amministrazione è una distinzione spuria. Il politico ha bisogno del bravo amministratore che sappia interpretare come attuare concretamente le decisioni prese, quindi di una persona di sua fiducia dal punto di vista della realizzazione del suo programma: questo era alla base della possibilità di assumere dirigenti esterni con contratti a termine, quando all’interno dell’amministrazione non vi fossero competenze adeguate (ossia: competenze manageriali). E si capisce bene che la vecchia dirigenza, entrata con un concorso in cui doveva dimostrare competenze giuridiche e amministrative, ma senza conoscenze in materie sociali, economiche o politologiche, non fosse pronta per i nuovi compiti. Naturalmente, i dirigenti così reclutati devono essere persone che hanno appunto quelle competenze, non persone che fanno parte della clientela del politico. L’amministratore, a sua volta, deve uscire dalla sua autoreferenzialità burocratica per capire le esigenze del mondo esterno, che sono quelle per le quali esiste il suo ufficio. In un sistema di management pubblico tra politico e amministratore ci deve essere collaborazione, ciascuno ovviamente nei propri ruoli.
Questa ri-concettualizzazione della PA porta con sé il bisogno di valutare il funzionamento dell’amministrazione e l’operato dei dirigenti. Se infatti il lavoro amministrativo non è più visto come svolgere una funzione (secondo regole fisse, sottoposte a controllo), ma come un’attività o un servizio che deve produrre dei risultati, e il dirigente è colui che con le proprie scelte organizzative riesce a ottenere i risultati desiderati, allora occorre un sistema per giudicare cosa è stato fatto, al fine di migliorarlo, o eventualmente di modificare la decisione presa.

Il testo è la prima parte di un più ampio scritto della Prof.ssa Nicoletta Stame.
Sul prossimo numero la seconda parte.

Per approfondire
Stame, N., 2011, “Responsabilità e valutazione nella PA italiana”, in
L. Meldolesi, Italia federanda, Rubbettino, Soveria Mannelli.
Stame, N., 2013, “Fare più e meglio con meno, e in modo democratico”, in
Rassegna Italiana di Valutazione (in corso di stampa).
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