Dimensioni collettive
La civiltà della vergogna
In un’opera di Eric Dodds, dal tentativo di Platone di salvare il conglomerato culturale tradizionale dinanzi all’avvento dei sofisti, considerazioni di etica collettiva contemporanea.
di Luther Blisset | Feb 2013
La classificazione dei comportamenti umani può essere definita sicuramente attraverso molteplici categorie che fanno riferimento a diversi aspetti della vita dell’uomo. Quello che ci sembra però più essenziale, e può essere considerato fondativo degli altri aspetti (economico, sociale, spirituale ), è quello etico.
L’etica ha a che fare con la dimensione più profonda della vita umana e, come ci hanno indicato le ricerche filologiche di Bruno Snell, il termine nelle sue origini ha a che fare con il “luogo” più intimo e “sacro” dell’essere vivente: la tana.
Utilizzando l’etica come categoria distintiva delle culture umane, come indicato da Eric Dodds nel suo ormai classico ”I greci e l’irrazionale” in cui riprende le tesi dell’antropologa americana Ruth Benidict, si possono individuare due grandi forme in cui le culture occidentali si sono manifestate nel corso della storia e sono la “cultura della vergogna” e la “cultura della colpa” .
In breve, in una civiltà della vergogna l'eroe è tale non perché è dotato di virtù e valore, ma perché la sua comunità di riferimento lo riconosce come tale. Nella civiltà della colpa, invece, è nella coscienza dell’individuo che si gioca il valore delle scelte.
Certamente nello studio della civiltà occidentale il passaggio dall’una all’altra forma di cultura ha che fare con la trasformazione della struttura religiosa; e certamente, secondo Dodds, è con il cristianesimo che si afferma la dimensione della colpa che è sicuramente la forma in cui si presenta nella modernità la cultura occidentale.
La società dell’Italia meridionale rappresenta una delle realtà dove spesso gli strati culturali si sovrappongono senza cancellare i precedenti.
La ritualità presente in molti riti delle culture meridionali ne è una chiara dimostrazione: la festa dei gigli, i battenti di Verbicaro, etc …, in cui il sostrato pagano è più che evidente e già ampiamente studiato.
La cultura contadina è stata fino al delirio moderno degli anni sessanta custode di quella arcaica concezione che Dodds vede decomporsi nel tardo ellenismo e poi definitivamente con l’avvento della coscienza individuale.
La riflessione che ci viene è legata alla rapidità con cui, nell’arco di un decennio, la modernità ha preso possesso della dimensione sociale e culturale della società contadina del Sud, e la responsabilità di tale rapidità è da attribuire alla sopravvivenza di una “civiltà della vergogna” soprattutto negli strati meno colti e agiati del mondo contadino.
Una delle forme attraverso le quali la società dei consumi si è affermata è l’omologazione a modelli trasmessi a tamburo battente e dinanzi ai quali la fragilità della cultura contadina non ha potuto porre barriere. Anche perché non esserne parte, per la fragile identità contadina, era una vergogna.
Il modello “piccolo borghese” del “quartino” con bagno in casa in “recinti” controllati, che nel Sud Italia hanno assunto il nome di “Parco”, ha presto portato all’abbandono delle case a corte, all’interno delle quali la condivisione andava dalla manifatture di conserve, alla recita del rosario; all’abbandono di antiche case coloniche spesso a favore di fabbricati abusivi costruiti accanto ad essi, ad imitazione dei quartini dei “Parchi” e alla fuga dai centri storici e al loro degrado. La stessa terra ha acquisito sempre più una connotazione negativa. Nella mia infanzia l’essere “campagnolo” era più o meno simile all’essere fuori dalla società.
La frantumazione degli spazi culturali ha comportato la trasformazione in una modalità mononucleare di una realtà che trovava il proprio ethos nella condivisione degli spazi per il lavoro comune - la scomparsa delle feste/cerimoniali, o la loro trasformazione in una vuota testimonianza molto spesso ai limiti del kitsch ne è un esempio -, tale frantumazione non ha però cancellato o trasformato la connotazione di “vergogna” della cultura del Sud, l’ha trasferita in quell’ambito che ha preso il posto dei vecchi spazi. Lo spazio collettivo è stato sostituito dal Pubblico.
La sopravvivenza tra arcaico e moderno ha portato a trasferire nell’agone politico il riconoscimento del valore dell’individuo; pertanto, la politica che nella cultura contadina era connotazione del potere e alterità rispetto alla dimensione reale delle relazioni sociali, diventa lo spazio nel quale singoli e “famiglie” proiettano il loro desiderio di riconoscimento in una gara spesso al limite della pantomima per cui non si può non rimpiangere l’esibizione delle abilità e della forza nell’arrampicata sull’albero della cuccagna con in cima l’agognato salame.
La chiusura nella dimensione soggettiva e mononucleare ha portato conseguentemente alla valorizzazione degli spazi privati e alla completa rimozione degli spazi comuni. Come ci indica la Bonesio (Luisa Bonesio, Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, Reggio Emilia, Diabasis, 2007), il paesaggio, lo spazio comune, è assimilabile ad un “volto”, che impegna l’ethos, il quale chiama in causa la responsabilità della condivisione di una “dimora”. Non si possono dividere luoghi eletti, oggetto di cura e di attenzione, oltre che di commercializzazione, da luoghi marginali, da relegare alla semplice funzionalità. Piuttosto, l’elezione di un luogo riguarda le possibilità di appartenenza e il significato ad esso attribuito dai suoi abitanti, divenendo dunque potenzialmente riferibile ad ogni spazio culturale.
Così, la marginalizzazione di aree naturali abbandonate ed estranee alla vita, che in molti paesi del sud viene riconosciuta esclusivamente al “corso” che taglia in due le “palazzine” e segna l’unico paesaggio riconosciuto e condiviso di appartenenza, è il segno di quanto detto precedentemente. Il paesaggio, come dice la Bonesio, non è una dimensione vedutistica - un quadro -, ma una stratificazione antropico-ambientale che mostra i segni del tempo come le rughe su un volto. Quindi il paesaggio è espressione dell’identità delle comunità che lo abitano e per questo il degrado degli spazi e dei luoghi sono il segno di una comunità depauperata della sua dimensione storica e dimentica delle radici da cui si è staccata per troppa “vergogna” frettolosamente.
Il recupero ambiental, quindi, è imprescindibile dalla ricomposizione di una identità di comunità e da una ricomposizione dei gruppi sociali ad un tessuto produttivo che ridia il senso vero alle cose e riporti la politica e il pubblico nella loro esclusiva sfera di competenza restituendo la dimensione della socialità alla collettività e ai beni che ad essa appartengono in quanto comunità.
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