Iliade. Diomede e Glauco
Il dono divino dell’ospitalità
Diomede, dopo il racconto di Glauco, conficca la lancia nella terra “nutrice di molti” e dichiara concluso il duello invitando Glauco allo scambio delle armi. L’idea che non si possa essere nemici con coloro con i quali si è condivisi il cibo è parte di una sacralità che sopravvive nella nostra cultura meridionale e in quella di tutto il Mediterraneo.
di Luther Blissett | May 2013
In un celebre episodio dell'Iliade, Glauco e Diomede si trovano faccia a faccia intenti a riconoscersi e scoprono che i loro padri sono stati legati da vincoli di ospitalità.
Diomede dice allora a Glauco: "Sì, tu sei per me un ospite ereditario e da lungo tempo, [«antico ospite paterno», xeînos patróïós... palaiós] così io sono tuo ospite nel cuore dell'Argolide e tu sei il mio in Licia, il giorno in cui andrai fino a quel paese. Evitiamo allora entrambi il giavellotto l'uno dell'altro […] scambiamoci piuttosto le armi, così che tutti sappiano qui che ci gloriamo di essere degli ospiti ereditari".
Questa situazione dà ai due un diritto che va oltre l’interesse delle nazioni a cui appartengono e che sono in lotta fra loro.
Il loro è uno scambio che, pur venendo dai loro avi, li lega e li obbliga: Oineo nonno di Diomede ha ospitato per 20 giorni Bellerofonte padre di Glauco.
"Avendo così parlato saltano dai loro carri, si prendono le mani e impegnano la loro fede. Ma in quel momento Zeus […] tolse a Glauco la ragione, poiché scambiando le sue armi con Diomede […] gli dà oro in cambio di bronzo, il valore di cento buoi in cambio di nove".
Zeus vede in questo scambio un cattivo affare. In realtà la disuguaglianza di valore tra i doni è voluta: uno offre delle armi di bronzo, l'altro rende delle armi d'oro; uno offre il valore di nove buoi, l'altro si sente tenuto a rendere il valore di cento buoi.
Ciò rende ancora più sacro il sentimento dell’ospitalità che infatti non si regge né sul profitto né sulla convenienza, ma sulla divina follia del dono che non chiede ricompensa alcuna.

Sintesi del canto VI dell’Iliade.

Troia è in guerra e i troiani hanno problemi. L'indovino Eleno consiglia al fratello Ettore di sacrificare a Pallade perché allontani l'invincibile Diomede. Diomede incontra Glauco, che a una domanda di Diomede, rivela di essere della stirpe di Bellerofonte: Bellerofonte era stato ospite di suo nonno. Allora Diomede stringe la mano a Glauco e i due si scambiano le armi. Ettore a Troia, dopo i sacrifici, incontra la moglie Andromaca e il piccolo Astianatte. Ai pianti di Andromaca risponde con dolcezza che sarebbe disonore non difendere la città anche se Troia è destinata a cadere e lui a essere ucciso. Abbracciatola, torna sul campo con Paride.

Prima del duello che avrebbe deciso le sorti della città il linguaggio del poeta riprende gli stereotipi della xenofobia: l'altro è inferiore in quanto "non è come noi" e ci è quindi "ostile” (in greco antico ξενός, "xenos", significa sia straniero che nemico), perché parla una lingua diversa dalla nostra ("barbaro" in greco significa letteralmente "il balbettante"), perché non professa la nostra religione, perché non si veste come noi (in molte lingue i concetti di "straniero", "strano" ed "estraneo" hanno la stessa radice linguistica, che in italiano è quella del latino "extra": "che viene da fuori").
Nell' accezione comune per «ospite» (xenos) si intende la persona che viene accolta in un luogo: il forestiero. Su più di un vocabolario però risulta, oltre alla definizione citata, anche una del tutto opposta: persona che accoglie, albergatore. Lo stesso non vale per l’inglese.
Anche la parola latina “hospes“, «ospite», è strettamente correlata con “hostis”, «nemico », venendo il significato del termine “hostis” dal termine “hospes”. L'origine comune di questi due termini si conserva nella loro potenziale interscambiabilità, nel senso che colui che è “hospes” è sempre anche “hostis”, è sempre nella condizione di diventare egli stesso straniero, viandante, bisognoso di ospitalità.

Il forestiero si può uccidere come nemico, o accogliere come ospite in casa. La prima azione appartiene al diritto naturale delle nazioni (esigenza nazionale, patriottica); la seconda appartiene alla relazione personale ed è talmente straordinaria che viene assunta come benedizione degli dei.
Nelle società antiche, in cui i diritti dell'individuo difficilmente erano tutelati, il rapporto di ospitalità, come quello di parentela, era sacro, in quanto rappresentava una delle più importanti sicurezze a cui ci si poteva appellare. Non si era difesi dalla legge, ma dai legami personali.

Alle domande di Diomede, ecco come Glauco inizia il suo racconto (nella infedelissima traduzione di Monti). L’inizio del discorso è caratterizzato dalla consapevolezza della caducità della vita (ed è la prima volta che nella letteratura si presenta tale tema). La caducità si contrappone, evidentemente, alla durevolezza oltre ogni limite temporale che il rispetto dell’ospitalità rappresenta.
Nelle parole di Glauco c’è anche l’orgogliosa consapevolezza di appartenere ad una aristocrazia la cui superiorità sta nella capacità di relazioni che vanno al di là della legge di Zeus, che richiede l’equità nello scambio (riducendo così il dono ad una operazione contabile) e al di là di quella della patria, legge che richiede il rispetto del diritto e talvolta anche l’uso della forza e la guerra:
“… All'armi io dunque
non verrò con gli Dei. Ma se terreno
cibo ti nutre, accòstati; e più presto
qui della morte toccherai le mete.
E d'Ippoloco a lui l'inclito figlio:
Magnanimo Tidìde, a che dimandi
il mio lignaggio? Quale delle foglie,
tale è la stirpe degli umani. Il vento
brumal le sparge a terra, e le ricrea
la germogliante selva a primavera.
Così l'uom nasce, così muor…”
Ecco così chiarito perché nei confronti dello xenos (straniero) possiamo applicare semplicemente il diritto nazionale (che lascia l’uomo nella dimensione dell’impersonalità), e anche perseguirlo come nemico; oppure possiamo rivolgerci allo xenos (nemico /ospite) come a un ospite, divenendo anche noi ospiti e, quindi, uniti da un legame divino la cui violazione sarebbe causa di sventure e diverrebbe tragedia.
L’eroe Diomede, quando si trova davanti Glauco, percepisce la presenza di una forza superiore e gli chiede con timore se non sia egli un dio. La sacralità della relazione si manifesta nel racconto di Glauco: i loro padri erano stati ospiti.
L’idea che non si possa essere nemici con coloro con i quali si è condiviso il cibo è parte di una sacralità che sopravvive nella nostra cultura meridionale e in quella di tutto il Mediterraneo (dove è dominante la “civiltà dell’onore”).
Diomede, dopo il racconto di Glauco, conficca la lancia nella terra “nutrice di molti” e dichiara concluso il duello invitando Glauco allo scambio delle armi. Uno scambio che, come già detto, è disapprovato da Zeus.
Dice la Beltrametti: «”Xenos” per noi, nelle nostre traduzioni, vale straniero o ospite, a seconda dei contesti. Per correttezza bisognerebbe ricordare che la parola definisce un vincolo di forte tenuta, il patto di ospitalità che gli antichi stabilivano tra persone e gruppi non legati tra loro da parentela né da continuità-contiguità territoriale e sancivano sul piano delle istituzioni con scambi di doni implicanti obblighi precisi non solo per i contraenti, ma anche per i discendenti del loro genos» (Anna Beltrametti, “Mediterraneo polifonico: xenoi prima che barbaroi. Rappresentazioni greche del Mediterraneo antico” - Università di Pavia).

Sembra così emergere nella percezione di Diomede la consapevolezza di un legame profondo che unisce gli uomini, pur nelle differenze di linguaggio, usi e cultura che connotano lo straniero.
Parafrasando Heidegger, si tratta dell’apertura da cui emerge l’uomo con le sue differenze; mentre l’ostilità è la conseguenza della dimenticanza di questa apertura. «Noi siamo un colloquio, e questo vuol dire: possiamo ascoltarci l'un l'altro. [...] Ma l'unità di un colloquio consiste nel fatto che di volta in volta nella parola essenziale è manifesto quell'uno e medesimo su cui ci troviamo uniti, sul fondamento del quale siamo uniti e siamo quindi autenticamente noi stessi. Il colloquio, con la sua unità, sorregge il nostro esserci.”(Heidegger, La poesia di Hölderlin, Adelphi)
Solo così lo xenos/nemico si può trasformare nello xenos/ospite ricomponendo quel legame con il divino che unisce le differenze in virtù della provenienza comune.
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