Pubblicato su politicadomani Num 76 - Gennaio 2008

Storie minime dell'Italia postunitaria
Le brigantesse
Nel brigantaggio dell'Italia meridionale un posto di rilievo ebbero anche le donne dei briganti, spesso divenute brigantesse esse stesse. La storia di alcune di loro in una mostra a Napoli

di Raffaele Gagliardi

"Per forza o per amore. Brigantesse dell'Italia postunitaria", è la mostra, originalissima per scelta tematica e documentazione, organizzata dal Laboratorio antropologico del dipartimento di Scienze dell'Educazione dell'Università degli Studi di Salerno e realizzata dal Professor Domenico Scafoglio.
Episodi di microstoria dell'Italia meridionali dopo il 1861, raccolti e presentati al grande pubblico presso l'Ipogeo della Reale Casa Santa dell'Annunziata di Napoli. Coinvolte nell'evento: la Regione Campania e le Province di Napoli e di Salerno, il Comune di Napoli e le Università di Napoli e di Salerno.
La mostra evidenzia l'operato delle donne nel periodo oscuro, detto "del brigantaggio" nell'Italia postunitaria: non nel ruolo di amanti capricciose o di vivandiere, comune a tutte le donne "impegnate" negli eserciti, bensì nella controversa partecipazione diretta agli eventi, anche quelli più cruenti, da vere protagoniste.
La presenza degli Assessori alle Pari Opportunità dei vari Enti coinvolti dimostra il taglio della mostra e l'interpretazione, in termini di valorizzazione delle figure femminili protagoniste di quei tragici eventi, che è stata data dagli organizzatori e dagli studiosi del fenomeno.
Nomi come Filomena Pennacchio, Giuseppina Vitale o Maddalena De Lellis e, ancora, Maria Domenica Piturra, sconosciuti alla grande Storia, ma ben noti nei loro paesi per le loro gesta, sono stati portati alla conoscenza del pubblico non specialistico. Tante storie intense e tragiche come quella di Maria Capitanio, che si dà alla macchia per ricongiungersi al marito brigante; o quella di Elisabetta Blasucci che, invece, diventa brigantessa per vendicare la morte del marito. Maria Oliverio, morto il marito capobanda, già sottufficiale borbonico, poi passato con i vincitori e, infine, divenuto brigante, diventa lei stessa il capo della banda; catturata, è condannata ai lavori forzati.
Molte di loro, per partecipare alle azioni, si travestivano da uomini e combattevano con la loro stessa determinazione e con l'identica ferocia. Una ferocia che contraddistingueva anche la repressione piemontese: era d'uso infatti, anche se nell'esercito era proibito ufficialmente, decapitare i malcapitati prigionieri: è il caso di Giuseppina Spina, di cui ci rimane solo la foto della testa. Molto spesso queste donne venivano uccise in combattimento e, se capitava di catturarle, difficilmente ci si accorgeva della loro appartenenza al cosiddetto "sesso debole". Alla cattura seguiva l'identificazione anche attraverso la fotografia: un sistema apparso da poco sui campi di battaglia, dalla guerra di Crimea. Dopo la traduzione in carcere seguiva il processo che molto spesso si concludeva con un'assoluzione. All'epoca, infatti, non si accettava l'idea che delle donne potessero decidere di loro spontanea volontà di aderire al modello di vita proprio del brigantaggio. È il caso, per esempio, delle sorelle Ciminelli di Lagonegro, che restarono fedeli alla causa borbonica. Inevitabile, quindi, la loro assoluzione, per aver agito in regime di costrizione.
È facile adesso leggere in quelle azioni e in quelle vite anticipazioni di quegli elementi che più tardi avrebbero contraddistinto la lotta per l'emancipazione femminile. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che in quel tempo la donna era considerata alla stregua di una proprietà.

 

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Num 76 Gennaio 2008 | politicadomani.it