Pubblicato su politicadomani Num 69 - Maggio 2007

Riserve di un premio Nobel
Il mito della liberalizzazione
Le considerazioni sviluppate in questo articolo si basano su uno scritto di Joseph Stiglitz, premio Nobel 2001 per l'economia, docente alla Columbia University di New York, consulente economico della Casa Bianca sotto l'amministrazione Clinton, ex vice presidente e chief economist, ovvero responsabile del settore economia, della Banca Mondiale, incarico che ha polemicamente lasciato in contrasto con le politiche seguite dall'istituzione internazionale. Un economista, dunque, di tutto rispetto. Una voce critica e scomoda.
L'articolo è stato pubblicato nel marzo 2006 sulla rivista Far Eastern Economic Review con il titolo "Social Justice and Global Trade" (Giustizia sociale e commercio globale). La versione integrale dell'articolo, in inglese, si trova sul sito www2.gsb.columbia.edu

A cura di Maria Mezzina

Ci sono state importanti battute d'arresto negli ultimi anni nell'impianto gigantesco che come una piovra sta allungando i suoi tentacoli sul mondo intero nel tentativo di stringerlo in una morsa da cui non può più liberarsi e farne preda della voracità di coloro che hanno pensato e stanno perfezionando questo impianto: chief executive di potenti multinazionali e ministri e banchieri dei paesi più sviluppati economicamente e politicamente e militarmente più forti. Gente che spesso si scambia di ruolo e che, comunque, frequenta gli stessi esclusivi salotti del potere.
"La storia recente degli incontri del WTO da Seattle a Doha, a Cancun, a Hong Kong - afferma il Nobel per l'economia Joseph Stiglitz - mostra che c'è qualcosa di profondamente sbagliato nel sistema del commercio mondiale."
Dietro lo scontento generalizzato che si esprime con proteste di piazza, manifestazioni e controvertici, ci sono fatti e teorie. "I fatti: gli attuali accordi economici danneggiano i poveri. Le tariffe e i prezzi che i paesi ad economia industriale avanzata applicano ai paesi in via di sviluppo sono quattro volte più alti di quelli applicati ai paesi sviluppati. L'ultimo ciclo di incontri internazionali sul commercio, l'Uruguay Round, in realtà ha peggiorato le condizioni dei paesi più poveri. Mentre infatti questi sono stati costretti ad aprire i loro mercati e a cancellare aiuti e sussidi alle loro produzioni, i paesi avanzati hanno continuato a dare sussidi, specie all'agricoltura, e hanno mantenuto barriere doganali nei confronti di quei prodotti che sono invece centrali per l'economia dei paesi in via di sviluppo. Inoltre, per il modo in cui sono applicate le tariffe, diventa più difficile per i paesi poveri il processo di conversione dei prodotti grezzi in prodotti lavorati, il cui valore aggiunto può dare impulso e far crescere l'economia: per esempio nel passaggio dalla produzione di derrate agricole al loro confezionamento e preparazione per uso alimentare. Pesi avanzati come quelli del Nord America, man mano che calavano i prezzi delle merci provenienti dai paesi in via di sviluppo hanno fatto sempre più ricorso a nuove forme di protezionismo di tipo non doganale. I vari accordi sul commercio - dice Stiglitz - non cancellano la voglia di protezionismo e la volontà dei governanti di proteggere gli interessi dei loro produttori e consumatori. La teoria poi che la liberalizzazione del commercio porti crescita economica che avvantaggia tutti è il mito, il feticcio di adesso. I leader politici si ergono a campioni della liberalizzazione e quelli che vi si oppongono sono bollati come retrogradi che cercano di far andare all'indietro il corso della storia".
È questa l'accusa veemente di Stiglitz. A nulla sembra che valga l'evidenza che in molti hanno sofferto a causa del processo di liberalizzazione e di mondializzazione del commercio, o meglio, a causa del modo e delle regole imposte nei vari "agreements" (NAFTA, GATS, TRIPS) per raggiungere l'obiettivo. Vale la pena ricordare il caso del Messico in cui, a causa dell'apertura delle frontiere con gli Stati Uniti (in seguito agli accordi del NAFTA, North America Free Trade Agreement) il granturco coltivato nel Messico è stato sostituito da quello più economico (perché sostenuto dal governo della Casa Bianca con sussidi agli agricoltori) proveniente dagli Stati Uniti costringendo migliaia e migliaia di contadini messicani ad emigrare negli Usa. Oppure il caso, drammatico, dell'acqua di Manhaus in Brasile, una città costruita sul più grande bacino di acqua dolce del mondo che avendo affidato la propria rete idrica alla multinazionale francese Suez, ha visto le tariffe decuplicarsi, la qualità peggiorare, il servizio nelle grandi periferie e nei centri abitati da migliaia di poveri, deteriorarsi fino a sparire. Oppure il caso a noi più vicino della città e della provincia di Arezzo, dove si paga l'acqua più cara d'Italia, legate fino al 2020 ad un contratto per i servizi idrici con un'altra multinazionale (una joint venture pubblico-privato) che la soffoca e da cui non potrà liberarsi se non a prezzo di una costosissima e quanto mai incerta azione giudiziaria. O come, infine, il caso del Sud Africa, dell'India e di altri paesi poveri che, per poter produrre da soli a prezzi ragionevoli le medicine di cui hanno drammaticamente bisogno, come i farmaci retrovirali per combattere l'aids, hanno dovuto sostenere dure battaglie legali con manifestazioni in tutto il mondo a favore del diritto alla salute - e alla vita in quei paesi così poveri - contro i TRIPS (Trade Related Intellectual Property Rights, accordi riguardanti i diritti di proprietà intellettuale).
L'economista è inorridito dalla gigantesca semplificazione che i politici fanno dei principi di economia che sono alla base della liberalizzazione del commercio e spiega che i benefici che essa porta con sé sono tali, e sono effettivamente grandi, solo se si verificano almeno tre condizioni: mercati corretti, piena occupazione, economia matura.
Il mercato deve essere permeato di una sana competitività. Vale a dire: i mercati non devono essere "drogati", devono essere trasparenti, non ci devono essere posizioni di predominio quali i monopoli e la concentrazione di capitali, beni, prodotti e servizi, e l'informazione deve essere corretta.
L'esistenza della piena occupazione è l'altro fattore: un lavoratore che per ragioni di concorrenza perde il suo lavoro deve poter trovare subito un altro lavoro. In questo modo, sostituendosi a settori protetti a bassa produttività i settori aperti ad alta produttività, si favorisce lo sviluppo individuale e complessivo e la crescita dei salari. Se invece la liberalizzazione avviene quando la disoccupazione è alta, chi perde il lavoro difficilmente ne trova un altro e rimane disoccupato andando così ad aumentare le sacche di povertà che di fatto invece di far crescere il paese lo impoveriscono.
Economia matura, infine. Questo significa che anche il passaggio da sistemi di produzione antiquati e stagnanti, con un basso tasso di produttività, a sistemi più moderni e dinamici e più produttivi va fatto gradualmente in modo da proteggere le comunità e gli stati da repentini e rischiosi cambiamenti; questi infatti richiedono tempo, impiego di energie economico-finanziarie e umane, e difficili adattamenti e cambiamenti di mentalità.
Non è aprendo i mercati che un paese potrà crescere ed arricchirsi, ma essendo più attivo e dinamico negli scambi commerciali. Il punto è, conclude Stiglitz, che la liberalizzazione non è un concetto astratto da abbracciare o respingere in nome del bene dell'umanità, ed è opportuno che ogni paese sappia chiaramente se con il suo tasso di disoccupazione, con la sua economia e con i suoi mercati finanziari, la liberalizzazione potrebbe o no portare ad una crescita più veloce, e decida di conseguenza.

 

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Num 69 Maggio 2007 | politicadomani.it