Pubblicato su politicadomani Num 59/60 - Giu/Lug 2006

Referendum sulle Riforme Costituzionali
La società che vogliamo
Nella scheda che ci sarà consegnata il 25 e 26 giugno dovremo scegliere fra il salto nel buio o la fedeltà al patto sociale che ci siamo dati nel 1948

di Maria Mezzina

Due anni di lavoro
È il 25 giugno del 1946 e i 556 costituenti eletti con il sistema proporzionale iniziano i lavori a Montecitorio. Dopo meno di un mese, il 19 luglio, l'Assemblea Costituente nomina una commissione di 75 per la stesura di una nuova Carta costituzionale. Nell'elenco ci sono nomi che avrebbero segnato la storia d'Italia: De Gasperi, La Pira, Moro, Zaccagnini, Togliatti, Croce, Einaudi, Pertini, Andreotti. Sono i migliori esponenti di una classe politica uscita dall'esperienza devastante del ventennio fascista e di una guerra perduta. Dopo 18 mesi di lavoro e di interminabili discussioni, il 22 dicembre del 1947 vengono varati i 131 articoli della Costituzione che sarebbe entrata in vigore il successivo 1 gennaio. Un risultato largamente condiviso (453 voti favorevoli e 62 contrari) da quelle 556 persone spesso lontane fra loro per appartenenza politica, ideologia, esperienze personali, convinzioni religiose. Una divisione spesso profonda, a volte insuperabile. Eppure quei primi rappresentanti del popolo italiano liberamente eletti a suffragio veramente universale (votarono allora per la prima volta anche le donne) erano animati da un unico scopo: esprimere in un patto condiviso il volto migliore dell'Italia, il senso più profondo della nostra cultura, i valori fondanti del nostro essere italiani. Con almeno due preoccupazioni, attuali allora come ora: garantire all'ordinamento dello Stato regole in grado di tradurre i valori in concretezza, attraverso norme specifiche applicate a realtà particolari e contingenti, e garantire l'Italia dalla possibilità di una deriva autoritaria quale quella che l'aveva portata agli anni del regime e alla tragedia della guerra.

I principi fondamentali
Democrazia e lavoro, i diritti fondamentali dell'uomo, la solidarietà politica, economica e sociale, l'uguaglianza e lo sviluppo pieno della persona umana, la partecipazione alla vita del paese in tutte le sue forme, la tutela delle minoranze, la libertà religiosa, l'adesione al diritto internazionale,la vocazione alla pace. Sono questi i principi fondamentali sanciti nei primi 12 articoli della Costituzione a cui si ispirano le successive parti normative. Il patto sociale del '48 specifica così le norme comportamentali affinché i principi diventino realtà quotidiana attraverso le azioni e i comportamenti che coinvolgono sia i cittadini, singolarmente o associati (Parte Prima, "Diritti e doveri dei cittadini"), sia lo Stato (Parte Seconda, "Ordinamento della Repubblica").
È per questa ragione che la seconda parte della nostra Costituzione è stata pensata e ripensata, discussa e ridiscussa, in lunghissime, complesse e proficue discussioni, in sede costituente e, infine, è stata accettata superando difficoltà di ordine politico e ideologico. E, per garantire la libertà e la democrazia reale attraverso forme di partecipazione a tutti i livelli, è stato messo in atto un delicatissimo quanto complicato sistema di pesi e contrappesi fondato sul principio della separazione dei poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario. Il che significa - è bene ricordarlo perché troppo spesso nella prassi se ne è persa la memoria - che spetta al Parlamento il compito di fare le leggi, al Governo quello di metterle in atto e alla Magistratura il compito di sorvegliare che le leggi siano rispettate.

Una situazione diversa
Dopo sessant'anni la situazione politica e sociale è cambiata. La Costituzione potrebbe così in qualche parte essere inadeguata e potrebbe essere necessario modificare alcune norme.
I costituenti di allora, per esempio, non potevano prevedere lo sviluppo e la diffusione globale dei mezzi di comunicazione di massa, né l'influenza che questi avrebbero avuto nell'orientare le decisioni della gente. La corsa all'accaparramento e al controllo di questi mezzi e la loro concentrazione in poche mani ha tolto spazio alla discussione politica, al confronto diretto e alla partecipazione attiva, aprendo la strada a forme subdole di regime mediatico e perfino a veri e propri episodi di isteria collettiva che, in alcuni casi (non sporadici) hanno portato anche a tragedie. Ai tre poteri previsti dalla Costituzione andrebbe allora aggiunto un quarto potere, quello delle comunicazioni e dei mass media, anch'esso, come gli altri, opportunamente "regolamentato" perché sia al servizio dei valori fondamentali posti all'inizio della nostra Carta. Attenzione però, "regolamentato" e non controllato nel senso di "imbavagliato", il che significa garantire la democrazia con la pluralità delle voci e il rispetto della libertà e della verità.
La posta in gioco
Anche il problema della cosiddetta "governabilità" è stato affrontato in varie fasi. La modifica della legge elettorale in senso maggioritario è volta proprio a garantire la governabilità. I risultati finora sono stati apprezzabili in tema di governabilità, molto meno apprezzabili invece sono stati in tema di tutela delle minoranze nel Paese e nel Parlamento.
Sono profetiche alcune considerazioni di Giuseppe Lazzati quasi due decenni fa:
"[le modifiche costituzionali n.d.r.] dovrebbero rendere l'ordinamento dello Stato e quindi l'azione di governo più rapidi, più sicuri, soprattutto più rispondenti a una situazione civile, sociale, politica, assai diversa da quella nella quale la Costituzione è nata.
Ammessa questa convenienza o necessità di modifiche costituzionali, l'interrogativo che subito si fa presente, con tono che oscilla tra il dubbio e la diffidenza, sente di dover chiedere se si tratta solamente di modifiche nel senso detto o se si vuole, sotto la loro veste toccare o ritoccare quei principi che nella stesura stessa del testo sono chiamati "fondamentali"".1
Di fronte al dubbio Lazzati esprime un no deciso e lo giustifica con la necessità del passaggio da una democrazia liberale a una democrazia sociale:
"Al fondo di tale passaggio sta l'abbandono di una concezione dell'uomo e della società puramente individualistica e la messa in atto al suo posto di una concezione personalistica-comunitaria. Essa fa da fondamento della società e del suo configurarsi in una democrazia alla cui appartenenza faccia da titolo non già la condizione di sesso, di censo, o di particolare titolo sociale, ma unicamente quella di essere persona con tutto il significato relazionale del termine persona, che nel lavoro, quale esso sia, esprime le doti spirituali che la caratterizzano come uomo, l'intelligenza e la volontà, fondamento della sua libertà, della sua creatività e quindi della sua capacità di porre diritti e rispondere a doveri nei riguardi della convivenza umana a cui appartiene". 2
C'è quindi in gioco molto di più che l'adeguamento di alcune norme al cambiamento dei tempi, è in gioco il significato più profondo del nostro patto civile e il modello concreto di società che vogliamo per noi e per i nostri figli. È in gioco il significato stesso di "patto sociale" e la scelta fra due modelli diversi e contrapposti di società: una società aperta e solidale, pronta a cambiare e a mettersi continuamente in gioco, contrapposta ad una individualistica, chiusa nelle sue difese e arroccata sulle sue paure.

Una nuova società
Nel 1947 i nostri costituenti hanno scelto la prima forma di società. Negli ultimi decenni, invece, si è fatta prepotentemente avanti la società delle speculazioni finanziarie e degli arricchimenti facili contro la società del lavoro e della produzione; si è imposta la società dei "furbi" a danno di quella degli onesti. Comportamenti che con un eufemismo si possono considerare almeno poco corretti sono diventati la norma, legittimati da che pur avendo posizioni di responsabilità istituzionale non solo si è reso colpevole da tali comportamenti ma li ha perfino pubblicamente giustificati.
È per questo che il dibattito sulle riforme costituzionali, iniziato nel 1983 (prima si parlava di "attuazione dei principi" sanciti dalla Costituzione), è diventato così difficile. È ancora per questo che nell'ultima legislatura partiti "nuovi", sorti cioè al di fuori della storia italiana e di quella eredità di valori che hanno portato alla stesura della Carta del '48, hanno potuto approvare a colpi di maggioranza la modifica di ben 55 articoli della Seconda Parte della Costituzione italiana. Una modifica che con gli assetti dello Stato stravolge anche i principi di uguaglianza e giustizia alla base del nostro patto sociale.

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1 Da un articolo di Giuseppe Lazzati apparso su Rinascita nel 1988, a due anni dalla scomparsa dello statista, e poi ripubblicato su Segnosette del 25 febbraio 1993, n. 8, pag. 15-16, con il titolo "Ma i principi non sono riformabili".
2 Ibidem.

 

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