Pubblicato su politicadomani Num 59/60 - Giu/Lug 2006

Infanzia ferita
In Palestina i bambini sono ovunque
La vita di tutti i giorni dei bambini palestinesi nei territori occupati nel racconto di una volontaria

di Francesca Bettini

A scuola
Novembre 2000, è da poco scoppiata la seconda Intifada.
Sa'ir, in Cisgiordania, è un popoloso villaggio rurale nel distretto di Hebron: ha una storia antica, e ospita un piccolo centro che si occupa di preservare e divulgare le tradizioni contadine locali. È un borgo operoso, c'è una moschea nuova di zecca e tante costruzioni in corso d'opera.
Ghazala Jaradat abita in una piccola casa a un piano, in cima a una collina brulla e pietrosa. Ha 14 anni, una sorella e quattro fratelli. Studia con profitto, le piace andare a scuola dove ha molte amiche e amici. Ancora non ha deciso cosa farà da grande. Ha tempo, è così giovane….. non sa che un giorno, all'uscita da scuola, mentre è ferma con alcuni compagni a chiacchierare, una pallottola sparata da un soldato israeliano le entrerà dritta nel cranio, con una mira scelta a precisione. All'ospedale la diagnosi sarà morte cerebrale.
Ora siamo nel 2001, esattamente il 1° di settembre. Non siamo più ad Hebron, ma nella Striscia di Gaza. Khan Yunis dista circa 20 chilometri da Gaza città che ha circa 260.000 abitanti di cui 160.000 sono rifugiati, e di questi 65.000 vivono nel campo profughi.
Muhammad al-Najjar ha 14 anni e sta raccogliendo frutta e verdura in un terreno coltivato. Viene avvistato da soldati israeliani. Questi si avvicinano, scendono in quattro, lo circondano e lo picchiano con il calcio del fucile. Lo abbandonano a terra, con il torace fracassato. Più tardi alcuni passanti lo ritrovano esanime e lo portano in ospedale. Per rianimarlo i medici avranno bisogno di iniettargli 13 sacche di sangue, sarà operato due volte, a causa del suo precario stato di salute lascerà la scuola.
E sì, perché studiare nella Palestina sotto occupazione militare, per un bambino è una sfida, un azzardo, una scelta e un dovere portati avanti a proprio rischio. Come è successo a Wala Abu Musa, di 10 anni, sempre a Khan Yunis, ancora nel maggio del 2001. Wala è in classe. Con i compagni segue la lezione. Anche In'am Abu Akkar, di 10 anni, è nella stessa classe di Wala. In'am ha cinque fratelli e tre sorelle, a casa sua può ancora vedere lo squarcio provocato nella parete da una bomba e i segni neri lasciati dall'incendio successivo. D'improvviso un missile sfonda la parete dell'aula. La scuola è stata centrata in pieno. I bambini colpiti sono tanti, trasferiti d'urgenza in ospedale. Alcuni, così traumatizzati, perderanno momentaneamente la parola. In'am riporterà gravi ferite alla gamba destra, Wala all'addome.
Giocare all'aperto
In Palestina i bambini sono ovunque, e giocano all'aperto, in strada - come da noi non è più usuale - sfuggendo alla protezione delle madri. È impossibile impedire a un figlio di giocare. Si raccolgono a sciami negli spiazzi, nei cortili delle case, in campetti di terreno spoglio tirano calci a palloni consumati sognando di diventare famosi calciatori. Come Abdurrahman al-Najjar, di 11 anni, di Khan Yunis ferito nel dicembre del 2001 mentre giocava a pallone davanti alla sua casa, o Ashraf Ayman Abu Sahlul, di 12 anni, di Khan Yunis, colpito al braccio nel gennaio dello stesso anno da proiettili sparati dai soldati israeliani che transitavano in una jeep militare proprio davanti al terreno dove lui giocava insieme a degli amici.
Nella zona è possibile notare una torretta. Si chiama gulbe. È una torretta mobile, appare e poi scompare, all'improvviso. I soldati israeliani sparano ai bambini e immediatamente dopo fanno sparire il gulbe, un tiro al piccione, un gioco macabro di morte.

Essere bambini
In Palestina l'infanzia è violata ogni momento, non c'è luogo sicuro che preservi i bambini da una spietata occupazione militare. Ad una bambina può accadere di pagare a caro prezzo lo stare con la mamma affacciata al balcone, quando è il tramonto, a godere l'aria fresca della sera. Un razzo lanciato da un aereo israeliano può cadere a ridosso della casa e l'urto di ritorno sbatterla violentemente contro la parete all'interno della stanza, lasciandola ferita, mentre la mamma è a terra svenuta, con un lungo taglio che le lacera la guancia. La bambina si chiama Jumana al-Najjar, ha 14 anni, vive a Khan Yunis.
Anche Nada Abu Ubayda - che di anni ne ha solo 8 - vive a Khan Yunis, la sua famiglia è poverissima, i nove fratelli e i genitori abitano tutti in una sola stanza: a Nada è crollato addosso il tetto, sbriciolato da un colpo di cannone sparato da un carro armato appostato nelle vicinanze. Nada è stata ricoverata in ospedale per giorni con ferite alla gamba sinistra e alla schiena e sintomi da trauma.
Protetti, armati fino ai denti, i soldati sparano dai carri con mirini di precisione che permettono una assoluta messa a fuoco. A volte accade che bambini, ragazzini a gruppi, da lontano, tirino pietre contro i tanks e allora i soldati prendono la mira e puntano alla testa: Sulayman Mussaber, di Khan Yunis, ha 13 anni nel settembre del 2000, e i soldati gli fanno saltare l'occhio destro. Viene curato in Arabia Saudita dove gliene applicano uno artificiale, ma lui non riesce a leggere bene con un occhio solo, lascia la scuola. Dice che da grande vuole diventare un poliziotto e difendersi da solo.

Dopo la seconda intifada
Arriviamo ad oggi, a quasi sei anni dall'inizio della seconda Intifada. Poco - quasi nulla - è cambiato. Il tanto sbandierato ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza, operazione di facciata, non ha modificato in niente l'occupazione militare israeliana: piccole colonie costruite su terreni rubati ai palestinesi e abitate da fanatici armati di mitra che giravano indisturbati sparando in ogni dove, sono state smantellate. Questo è quanto. Per il resto la vita quotidiana per i palestinesi dei Territori occupati continua a rimanere drammatica: bisogna sopravvivere alla mancanza di lavoro, alla fame, alla distruzione sistematica delle principali vie di comunicazione, allo sradicamento di ulivi secolari posseduti da generazioni, alla distruzione della propria casa, sfidare la sorte e sperare di non essere nel mucchio quando Israele ordina quello che chiama omicidi "mirati", uccisioni extragiudiziali di presunti "terroristi". Il controllo dell'esercito occupante è quotidiano: aerei spia e bombardieri F16 volano spesso sulle loro teste.

Troppo movimento
Il quattro di gennaio del 2005, noi eravamo a Gaza, per uno dei nostri periodici viaggi. Ci fu una devastante incursione israeliana nel villaggio di Bayt Lahiya, che sorge vicino al campo profughi di Jabaliya, con 106.000 abitanti. Allora ci recammo sul luogo della strage: era un campo di fragole dove gli uomini lavoravano e i bambini giocavano. Troppo "movimento": i tanks avevano sparato lasciando sul terreno sette morti fra i 18 e i 25 anni, dieci feriti tra gli 11 e i 16 anni, tutti imparentati fra di loro, fratelli, cugini, zii. Per Isa Galiya, nato nel 1996, per Ibrahim al-Kosheh, nato nel 1995 e per Imad al-Kosheh, nato nel 1993, in conseguenza della gravità delle ferite si rese necessaria l'amputazione di entrambe le gambe. Noi li andammo a visitare in ospedale. Portammo conforto alle famiglie che anche in quei terribili momenti non ci negarono mai gentilezza e cortesia. Esprimemmo loro solidarietà, aiuto e sostegno dall'Italia.
Nei primi mesi di quest'anno siamo tornati nuovamente a visitare i tre ragazzini feriti e portare buone notizie: la possibilità di acquistare una sedia a rotelle per Ibrahim e il materiale per costruire un servizio igienico che possa sopperire alla sua menomazione. Ibrahim, come i suoi due amici, non ha più neanche moncherini ai quali poter applicare delle protesi.

Gazzella onlus
Quando scrivo "noi" parlo di noi volontari di Gazzella-onlus, l'associazione di cui faccio parte e che ormai dal 2000 sostiene economicamente i bambini palestinesi feriti da armi da guerra, grazie ai singoli, alle famiglie, ai gruppi di amici, alle scolaresche, che qui in Italia sottoscrivono una adozione a distanza, nella speranza che essi in un futuro non lontano possano vivere liberi e felici nella loro terra. In questi anni hanno aderito al progetto più di 1000 persone, sparse in tutta Italia, che a loro volta hanno contribuito a creare una catena di solidarietà umana e politica, e questo ci ha fatto diventare tutti - noi e loro - un po' migliori.
Gazzella-onlus ha effettuato fino ad oggi più di 16 viaggi nella Striscia di Gaza per consegnare direttamente alle famiglie dei bambini il denaro raccolto, senza intermediari. I nostri referenti il loco sono il PMRC - i Comitati di Soccorso medico palestinesi - una Ong sanitaria che si occupa di riabilitazione motoria e che attualmente - a causa dello spietato embargo economico di Usa e Europa decretato dopo la vittoria di Hamas alle recenti elezioni palestinesi - ha dovuto chiudere il suo centro di Khan Yunis per mancanza di fondi e medicine.
Muhammad, Wala, In'am, Abdurrahaman, Asharaf, Jumana, Nada, Sulayman, Isa, Ibrahim e Imad sono solo alcuni dei 700 bambini che abbiamo sostenuto in questi sei anni di attività, permettendo loro cure appropriate e spesso un alleviamento delle condizioni di estrema povertà. Alcuni purtroppo sono rimasti uccisi, ma molti sono guariti e oggi sono diventati giovani donne e uomini. Come Ghazala Jaradat, la ragazzina quattordicenne di Hebron, della quale ho raccontato all'inizio della storia, "prima nostra adottata".
Marisa Musu e Marina Rossanda - che poi al loro ritorno daranno vita al progetto - durante un viaggio in Palestina nel dicembre 2000, l'avevano visitata in ospedale: era magra con la testa rasata, priva di coscienza, dopo una recente operazione per estrarre il proiettile che le comprimeva e le gonfiava il cervello. L'anno successivo, dopo una ulteriore operazione e lunghe cure riabilitative in Iraq, Ghazala si era trasformata in un'adolescente bella, bruna, che da grande voleva diventare medico per essere d'aiuto agli altri e che da Marina - tornata nuovamente a farle visita - desiderava un unico regalo, un dono che le chiese a bassa voce, con esitazione e timidezza: "sì un regalo mi piacerebbe molto: un pezzetto di pace…".
Ghazala significa Gazzella.

INFO
Gazzella-onlus pubblica un sito internet: www.gazella-onlus.com
email: pergazzella@katamail.com
Gazzella è iscritta nel registro delle onlus aventi diritto al 5 per 1000 dell'Irpef nella dichiarazione dei redditi: C.F. 97256870581

 

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