Pubblicato su politicadomani Num 59/60 - Giu/Lug 2006

La crisi del neoliberismo
Disinvolte prassi finanziarie e strutture di peccato
Etica, Finanza e globalizzazione

di Romeo Ciminello*

La sentenza di condanna che ha ritenuto colpevoli di cospirazione e frode Kenneth Lay e Jeffrey Skilling, rispettivamente presidente e amministratore delegato della società Enron, gigante dell'energia americano tristemente condotto al fallimento, ripropone con il processo per l'accertamento delle cause della bancarotta del crack Parmalat, il forte bisogno di etica di fronte a quello che possiamo chiamare il più grande dissesto industriale della storia di questo inizio secolo. I due casi, benché non i soli, sono sicuramente i più esemplificativi di quel fenomeno ineludibile di"criminalità finanziaria tollerata" presente nel sistema capitalistico. Per capire questo concetto, a prima vista troppo forte e generalizzante, occorre dotarsi di una chiave di lettura da individuare nella conoscenza, anche sommaria, delle variabili strutturali dei due casi: fattori d'ordine quantitativo e qualitativo. Questa cognizione di causa aiuterebbe a formarsi una opinione sulla necessità di una revisione etica del sistema, sulla improcrastinabilità di un'azione formativa delle coscienze, nonché sulla perniciosità dirompente di questa subdola prassi che, all'insegna del liberalismo economico, è in grado di strutturare un monopolio di poteri, sempre più forti, occulti e difficilmente individuabili prima di aver creato sconquassi.
Riguardo agli aspetti quantitativi possiamo considerare subito che il caso Enron ha fatto perdere il posto a 20 mila lavoratori, che il fallimento del gruppo ha bruciato oltre 80 miliardi di dollari degli investitori ed infine che nel buco Enron sono spariti oltre 1,2 miliardi di dollari di contributi pensionistici.
Per Parmalat i numeri si muovono su analoghi livelli, tant'è vero che qualcuno ha chiamato il caso "L'Enron d' Europa" infatti i dipendenti messi a rischio erano 39.000 distribuiti in circa 30 paesi, gli allevatori che fornivano il latte erano circa 5.000, il totale del crack pare che superi i 10 miliardi di euro coinvolgendo circa 135.000 risparmiatori (85.000 obbligazionisti, 50.000 azionisti), come denunciato dalle associazioni dei consumatori Adusbef, Codacons, Adoc e Federconsumatori, per un valore complessivo di 14 miliardi di euro, con una esposizione bancaria totale superiore ai 2,7 miliardi di euro.
Sotto il profilo qualitativo invece si deve rilevare che il crack Parmalat, e quello Enron, (per non ricordare anche Worldcom e Cirio), evidenziano la crisi del modello neoliberista e la necessità di rivedere in maniera più attenta le conseguenze della finanziarizzazione dell'economia, che sottrae risorse produttive collettive consegnandole alla speculazione finanziaria, per giunta, anche attraverso false comunicazioni sociali, prassi truffaldine di "scannerizzazione" di documenti e falsificazione di capitoli di bilancio. Le cose gravi da non sottovalutare sono soprattutto due: innanzitutto che ciò che si riteneva non potesse accadere in Europa o quanto meno nel nostro Paese, per via della certezza dei controlli e della struttura normativa, è invece non solo accaduto, ma è stato di una violenza inaudita al punto da mettere a repentaglio anche la tenuta delle istituzioni addette, come la Consob e la Banca d'Italia. E poi, che il vortice di implicazioni dei due casi di bancarotta ha coinvolto tutti i gangli del sistema, dalle autorità monetarie e di controllo, ai consigli di amministrazione ed ai collegi sindacali responsabili della governance sui bilanci, ai managers, alle banche, alle società di ratings, alle società di revisione, ai sindaci ecc.. e, il perché resta ancora dai contorni sfumati. Cercare di capire come sia potuto accadere non è cosa da ricercarsi nelle aule dei tribunali e nelle prove incidentali o nei dibattimenti processuali, a mio avviso il perché può essere trovato solo nel fondo delle coscienze degli attori coinvolti. E cosa ancor più grave sappiamo bene che non saranno i 185 anni di carcere comminati a Skilling e né i 45 propinati a Kenneth Lay né tanto meno le pene che verranno eventualmente inflitte a Calisto Tanzi e alle altre 64 persone coinvolte nel crack Parmalat a chiudere definitivamente il problema perché non si tratta di semplici casi sporadicamente accaduti: si tratta invece di un vero e proprio modello di "escalation" che solo gli addetti ai lavori possono, e neanche in maniera del tutto chiara, riuscire a comprendere. Questo perché esiste nell'aggressività capitalistica, quella sindrome di "crescente divinizzazione" determinata dal successo e dal senso di onnipotenza che la ricchezza riesce a inculcare nell'animo umano. Non si è criminali, ma lo si diventa gradualmente con il crescere dell'onnipotenza che l'accumulazione di stipendi, stock-option, profitti e privilegi fornisce, esattamente come avviene in politica. Quando ci si crede di essere onnipotenti, tutto è permesso e quindi si spezza ogni vincolo e non esistono più limiti né tecnici, né legali e né tanto meno morali. Senza ripercorrere infatti le tappe della storia finanziaria degli ultimi 10 anni, basta ricordare alcuni nomi come Worldcom, Tyco, Rigas, Adelphia, CSFB, Qwest, Athur Andersen, Thorton e a casa nostra Cirio, Giacomelli e Finpart per rendersi conto che non si tratta di "criminalità organizzata" come purtroppo la si chiama in termini legali. In effetti, invece, è l'esatta applicazione del modello citato, che corrisponde a qualcosa di ben più grave: a quelle realtà che nell'enciclica Sollicitudo Rei Socialis al punto 36 vengono indicate da Giovanni paolo II, come "strutture di peccato". Infatti il modello di escalation di questa "disinvolta prassi finanziaria" corrisponde in maniera puntuale alla descrizione che ne fa l'enciclica quando mette in evidenza che in un mondo in cui vi sono blocchi sostenuti da rigide chiusure ideologiche non ci può essere interdipendenza, ma radicamento di diverse forme di imperialismo per cui "non può che essere un mondo sottomesso a "strutture di peccato". "Queste sono costituite dall'insieme "dei fattori negativi, che agiscono in senso contrario a una vera coscienza del bene comune universale e all'esigenza di favorirlo" e pertanto tali "strutture di peccato", le quali si radicano nel peccato personale (…) son sempre collegate ad atti concreti delle persone, che le introducono, le consolidano e le rendono difficili da rimuovere. E così esse si rafforzano, si diffondono e diventano sorgente di altri peccati, condizionando la condotta degli uomini." Anche se questa definizione si attaglia perfettamente alla realtà in parola, l'espressione, in effetti, non chiarisce ancora le cause che la determinano e che invece l'Enciclica spiega in maniera lucida e soprattutto realistica sottolinenando che: ""Peccato" e "strutture di peccato" sono categorie che non sono spesso applicate alla situazione del mondo contemporaneo. Non si arriva, però, facilmente alla comprensione profonda della realtà quale si presenta ai nostri occhi, senza dare un nome alla radice dei mali che ci affliggono. Si può parlare certo di "egoismo" e di "corta veduta"; si può fare riferimento a "calcoli politici sbagliati", a "decisioni economiche imprudenti". E in ciascuna di tali valutazioni si nota un'eco di natura etico-morale. La condizione dell'uomo è tale da rendere difficile un'analisi più profonda delle azioni e delle omissioni delle persone senza implicare, in una maniera o nell'altra, giudizi o riferimenti di ordine etico." Quindi la considerazione importante che propone è che non si è in presenza di semplici errori, ma si tratta di vera e propria prassi peccaminosa, scellerata e disonesta perché vengono trasgrediti la legge naturale ed i comandamenti il cui mancato rispetto non solo va contro Dio, ma "danneggia il prossimo, introducendo nel mondo condizionamenti e ostacoli, che vanno molto più in là delle azioni e del breve arco della vita di un individuo. S'interferisce anche nel processo dello sviluppo dei popoli, il cui ritardo o la cui lentezza deve essere giudicata anche sotto tale luce." E con ciò il Magistero perviene, al successivo punto 37, ad una affermazione molto netta e illustrativa, facendo rilevare in pieno quali siano i presupposti che spingono l'uomo al progressivo deterioramento comportamentale, sottolinea infatti che "tra le azioni e gli atteggiamenti opposti alla volontà di Dio e al bene del prossimo e le "strutture" che essi inducono, i più caratteristici sembrano oggi soprattuto due: da una parte, la brama esclusiva del profitto e, dall'altra, la sete del potere col proposito di imporre agli altri la propria volontà. A ciascuno di questi atteggiamenti si può aggiungere, per caratterizzarli meglio, l'espressione: "a qualsiasi prezzo". In altre parole, siamo di fronte all' assolutizzazione di atteggiamenti umani con tutte le possibili conseguenze." Precisa infine che pur se queste due inclinazioni sembrerebbero di per sé autonome e scindibili, in realtà "entrambi gli atteggiamenti si ritrovano - nel panorama aperto davanti ai nostri occhi - indissolubilmente uniti, sia che predomini l'uno o l'altro."
A questo punto ritengo che non vi sia altro da aggiungere se non che è senz'altro vero che occorre ridare primato alla coscienza dell'azione politica sull'economia e sulla finanza; che l'operato di managers e imprenditori, debba essere valutato attraverso forme pubbliche di controllo, non partitico dirigistico; che vengano controllati cioè da comitati etici super partes e che inoltre la tassazione della circolazione monetaria e finanziaria sulle rendite speculative possa fungere da deterrente vero in grado di dissuadere gli azzardi morali; e che, infine, la speculazione selvaggia sia combattuta anche attraverso la lotta ai paradisi fiscali; ma soprattutto, sono molto più convinto, che si debba levare forte, il richiamo delle coscienze alla costruzione del bene comune; ad un cambiamento radicale del modello e della prassi neoliberista; ad una rinnovata formazione di managers e dirigenti che debba non solo transitare attraverso professionalità e conoscenza tecnica, ma anche attraverso percorsi formativi della "coscienza etica", dei limiti morali della propria attività. Se poi il tutto venisse inserito in un ambito di trasparenza condivisa la cui trasgressione sia sancita con una vera, generalizzata e incisiva censura sociale, allora forse potremo ritrovare la fiducia smarrita.

*Professore della Facoltà di Scienze sociali presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma

 

Homepage

 

   
Num 59/60 Giu/Lug 2006 | politicadomani.it