Antichi mestieri
La lunga storia del lino: dalla produzione alla tessitura
Un filo lega le culture del mediterraneo, sia quelle materiali che quelle formali. Dopo la canapa e la seta, ecco il lino. Gli stadi della sua produzione e della sua lavorazione. L’auspicio che le antiche colture, rispettose dell’ecosistema, e le attività di produzione, in cui nulla veniva scartato e tutto riutilizzato, sulle quali si reggeva l’economia agricola e artigianale del nostro paese e del sud, possano essere riprese in forma moderna e generare nuova economia buona.
di Antonio Guarino | Apr 2013
La più antica delle fibre tessili vegetali è il lino. L’etimologia della parola “linea”, dal latino linum, deriva da lino, cosi come discende dal greco λίνον [linon] il termine “filo”.
Il lino attraversa la storia delle civiltà del mediterraneo. In Egitto era conosciuto già nel V millennio a.C. e fu coltivato anche nell’antica Babilonia.
I fenici ne fecero un prodotto di grande valore commerciale e lo diffusero lungo le coste del mediterraneo facendolo conoscere ai greci e agli etruschi.
Questi ultimi usavano il tessuto di lino non solo per le vesti indossate dall’aristocrazia ma anche per le vele delle navi. Tipico indumento di questo popolo, che risale a circa il VI secolo a.C. è il chitone di lino: un indumento indossato da uomini e donne anche in una versione corta al ginocchio, e in seguito, in epoca ellenistica, attillato con cintura.
Le fasi della lavorazione del lino sono descritte nella tomba bolognese degli orsi, dove è stato trovato un tintinnabulum, campanello di bronzo, su cui sono raffigurate le fasi per ottenere il tessuto: dalla cardatura, alla filatura, fino alla tessitura.
Dal lino si otteneva un tessuto che era utilizzato anche come supporto per la scrittura.
Nella Mummia di Zagabria il defunto era avvolto in un lenzuolo di lino. La particolarità di questo lenzuolo sta nel fatto che si trattava di un libro di lino etrusco scritto con inchiostro nero e poi utilizzato dagli egiziani per avvolgere la salma.
Anche la Sacra Sindone conservata a Torino è un lenzuolo di lino: misura 437xl11 cm; ha un disegno a spina di pesce ed è stato filato e tessuto a mano, con molte irregolarità.
Dal medioriente il lino si diffuse in tutta l’Europa riuscendo a mantenere il suo predominio per tutto il medioevo, anche quando nel 1300 gli arabi introdussero il cotone.
Nel Medioevo, i pittori erano soliti sostituire l’uovo, usato nella composizione delle tempere, con l’olio di lino cotto fatto decantare al sole; quest’operazione rendeva i colori più brillanti e più facili da utilizzare.
Nel Rinascimento il lino fu molto usato per la produzione di capi raffinati come camicie e lenzuola.
Poi, il lino incominciò a perdere il suo predominio rispetto alle altre fibre tessili. E tuttavia rimase la fibra ricercata per la sua eccellenza raggiungendo il massimo dello splendore tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento. Intanto, nel XVIII secolo, con l’invenzione delle prime macchine per la filatura e la produzione intensiva del Nord America, il cotone cominciò a prevalere sul lino fino a conquistare una posizione dominante diventando la fibra più usata per la produzione di massa dei tessuti.
Oggi il lino è tra le fibre tessili quella meno utilizzata. Ma nulla ha perso della sua posizione dominante in termini di qualità e di tessuto pregiato tra i consumatori. Il lino è infatti percepito come un prodotto da élite che dà un tocco di eleganza quando viene usato per l’abbigliamento, nei rivestimenti d’arredo o nei tessuti per la casa.

Dalla pianta al tessuto
Le fasi della lavorazione

Il lino si ricava dal fusto del linum usitatissimum. In agronomia questa pianta è considerata una coltura miglioratrice del terreno, perché dopo la raccolta lo lascia in ottime condizioni di sofficità e drenaggio.
Il ciclo di crescita del lino è molto breve, circa cento giorni: si semina fra la metà di marzo e la metà di aprile, cresce tra aprile e maggio, tra giugno e luglio c’è la fioritura, il raccolto avviene alla fine di luglio. Un tempo si faceva a mano, piantina per piantina, estirpandola con le radici, per conservare la massima lunghezza delle fibre e per non rovinare i semi. Poi le piantine venivano ripulite con cura sia dalle radici che dalla terra. I covoni erano lasciati sui campi per un paio di giorni e poi, separati in fascine, portati in cascina e distesi sull'aia per l’inizio della lavorazione.
Oggi la coltivazione e la lavorazione del lino avviene in forma industriale, con tecniche diverse da quelle artigianali di una volta che cercano però di riprodurre.
Con la “battitura”, che ancora si fa con il “mazzocco” (strumento di legno a forma cilindrica), secondo una tradizione antichissima, si separano i semi dal fusto della pianta. Con i semi si ottengono olio di lino, attraverso la spremitura con il torchio, unguenti cosmetici e medicinali.
Ad agosto i fusti, sono posti a macerare in acqua corrente per quindici giorni, per evitare marcescenze. Quindi le piante vengono fatte asciugare al sole.
Le fasi successive vanno da settembre fino all’inverno. È in queste fasi che tradizionalmente sono coinvolte le donne; ed è a questo punto che dalla pianta emerge la fibra tessile.
Gli steli essiccati e riuniti in piccoli fasci sono sottoposti alla “maciullatura” con speciali attrezzi di legno, le “gramole” (detti anche “trocco” per la loro somiglianza, in dimensioni ridotte, con la mangiatoia di una stalla), azionati a mano o meccanicamente, che schiacciano e frantumano la parte legnosa.
Con la “scotolatura” vengono poi asportati i frantumi legnosi e separate le fibre. È in questa fase che il lavoro diventa sfibrante: si tratta di battere gli steli di lino - una prima e una seconda volta, dopo un giorno di sole - con spatole (“scotole”) di legno per scoprirne le fibre (dalle 30 alle 50 fibre tessili per ogni stelo.
L'insieme di tutte queste operazioni è chiamato “stigliatura”.
Si arriva così al lino greggio, che viene sottoposto alla “cardatura” o “pettinatura”, con pettini chiodati dalla trama di diversa finezza scelta in funzione del risultato finale. Con la pettinatura si separano le fibre fini e lunghe da quelle corte e arruffate. Le fibre lunghe sono destinate alla filatura e alla tessitura di stoffe di pregio, con le fibre più corte e spezzate si fanno tessuti più grezzi (sacchi o strofinacci); lo scarto fibroso, la “stoppa”, è usato per imbottire stivali, per avvolgere i tappi delle botti, per la produzione di carta e anche per tappare buchi. Nemmeno gli scarti legnosi vengono buttati via: sono utilizzati come concime, combustibile oppure isolante.
Si passa alla bollitura della matassa con lo scopo di ammorbidirla, sbiancarla e assottigliarla. Durante questa fase si dava con coloranti naturali la tinteggiatura.
Una volta ottenuta, la fibra di lino va trasformata e ridotta in filo. Una vota la filatura si faceva soltanto a mano con l’ausilio dell’arcolaio e del fuso le cui forme variavano secondo le regioni in cui si lavorava. Il fuso è composto da un bastoncino infilato in un tondino forato (largo dai 4-6 cm) che viene fatto ruotare. La rotazione impressa al bastoncino, prolungata dall’effetto centrifugo del tondino, torce le fibre che diventano filo che nel girare si accumula via via sul bastoncino. In seguito alla torcitura, mediante l’avvolgimento verso destra e verso sinistra di più fili insieme si ottengono filati più resistenti per la cucitura, per il ricamo e per la tessitura.
La tessitura, che è arte molto antica, e avviene attraverso i telai, si ottiene attraverso una serie di fili posti perpendicolarmente tra loro (la trama e l’ordito). La tessitura fu un’attività di grane rilievo nel Medioevo poiché grazie all’invenzione del telaio a pedale, che sostituì quello a mano, divenne un’importante attività per l’economia di esportazione.
Dopo la tessitura, la pezza ottenuta si sottoponeva al candeggio per eliminare lo sporco e le impurità residue delle lavorazioni precedenti e per sbiancarla. A questo punto il tessuto era tinto in pezza oppure stampato.

Il tessuto di lino presenta notevoli vantaggi: ha un’elevata capacità di assorbire l’umidità e dà un notevole confort, non provoca allergie e favorisce il benessere dell’organismo, ed è usato soprattutto nei tessuti estivi; è resistente più da bagnato che da asciutto; mantiene le sue qualità anche dopo frequenti lavaggi; non si deforma nel tempo e, quindi, le sue dimensioni rimangono stabili.
Rilevante è il fatto che la sua coltivazione ha un impatto ambientale minimo perché non necessita d’irrigazione - a differenza della coltivazione del cotone per la quale c’è bisogno di irrigazioni intensive: circa 7.100 litri d’acqua per ogni chilogrammo di cotone raccolto -, si accontenta delle piogge, né di defoglianti, e, inoltre, assorbe carbonio: un ettaro di lino trattiene ogni anno 3,7 tonnellate per ettaro di CO2, una particolarità che rende il lino una coltura ecologicamente notevole.
Le fibre di lino sono utilizzate per i tessuti, la carta, i feltri; i semi di lino e il suo olio per alimenti, vernici e per il linoleum; le anas per il giardinaggio, l’isolamento, le lettiere, il terriccio. Ogni elemento della pianta è utilizzato. Oggi, la fibra di lino è anche l’elemento ideale per la realizzazione di biocompositi, con alte prestazioni per utilizzi tecnici, impiegati dall’industria. Sono tutte applicazioni che rappresentano sbocchi innovativi e offrono reali prospettive per tutta la filiera del lino europea.
L'Italia è stata un Paese a buona coltivazione lino-canapiera con vaste zone agricole in Lombardia, in Veneto e nella Campania. Da queste attività si svilupparono due iniziative industriali: lo sfruttamento dei semi per estrarre olio di lino da destinare alle industrie nascenti dell'epoca (vernici, inchiostri e stampa, ausiliari per la lavorazione dei tessili), e la trasformazione da fibra a filo per tessitura, attuata dal Linificio e Canapificio Nazionale nato nel 1873.
Nell’area giuglianese (fra Napoli e Caserta) la presenza del lino può essere fatta risalire alla presenza degli etruschi nel primo millennio avanti Cristo. Per le caratteristiche dei terreni e per i fattori climatici del luogo la coltivazione e la lavorazione del lino continuò fino agli anni ’50 del secolo scorso.
Nei ricordi di Domenico De Luca, memoria storica vivente del giuglianese, il lino era coltivato in ampi terreni lungo la fascia di falso piano della collina dei Camaldoli e in pianura. Nel mese di giugno, dopo la fioritura degli alberi di ciliegio e di pesco i prati, con la fioritura del lino, si coloravano di puntini di azzurro.
Era un’attività che coinvolgeva molti abitanti della zona. Risulta dagli atti del comune di Marano di Napoli che nell’ottocento il 40% delle donne lavorava alla filatura del lino. Intorno alla “Starza”, fuori ai bassi - racconta De Luca - si potevano osservare le donne impegnate nella trasformazione e nella filatura del lino fino a 50 anni fa. Nella stessa zona (in via Speranza, ma anche in località Faragnano) si trovano ancora, incastonati nei muri o abbandonati ai margini della strada, parallelepipedi di pietra con un foro quadrato centrale utilizzati nel ‘700 per maciullare il lino.
Quella del lino è un’arte antica, un lavoro fatto di conoscenze di manualità, utile nella produzione di molti beni di consumo. È un’attività che genera valore economico, rispetta l’ambiente e impreziosisce il paesaggio. Un’attività, quindi, che ha tutte le carte in regola per attrarre giovani imprenditori creativi con voglia di fare.
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